Recensione di Maria Grazia Maiorino per:"infinito leopardi" di anna de simone |
Recensione su Infinito Leopardi, Anna De Simone Ed. Olmis (Osoppo-UD), 2018
con tre incisioni di Livio Ceschin, Circolo Culturale Menocchio
Si potrebbe cominciare da quello che il libro di Anna De Simone non è: non è un’antologia di poeti del Novecento che si richiamano a Leopardi, non si rivolge a un target di lettori precisato – i giovani, gli accademici e specialisti del settore, i cultori di versi che si riconoscono in una o in un’altra scuola di poesia - né intende semplificare la complessità del pensiero leopardiano per compiacere un presente scandito da ricorrenze e iniziative dove ricorre con insistenza l’aggettivo infinito. Per la scrittrice Giacomo Leopardi, il suo Leopardi, è stato sempre accompagnato dall’immenso alone di mistero di un sonetto, nel quale risuona emblematicamente l’echeggiare di un attraversamento poetico e filosofico senza confini di tempo e di spazio. Con spirito libero intesse qui un dialogo, direi soprattutto musicale, mettendo in relazione poeti da lei amati e studiati con versi e passi estratti dall’intera opera leopardiana: una specie di contrappunto, che lascia affiorare elementi, colori, suoni, immagini, suggestioni personali e nello stesso tempo fascinose per la sensibilità di noi lettori. Ci immergiamo in una fluidità naturale, acquatica, lasciandoci trasportare: la luna, il colore viola che volge in porpora e la viola, i tramonti, il canto degli uccelli, il dolore, la morte, l’attesa. E il fil rouge che unifica ogni passaggio lo troviamo in un tema ricorrente dall’inizio alla fine del libro: la ricerca della felicità, intesa non come inseguimento edonistico del piacere, ma come destino quasi sacro di attesa, aperto all’oltre e radicato nel tempo dell’innocenza della ‘prima volta’, della meraviglia e della scoperta dell’amore. Ascoltiamo questo inizio: “Ho cercato di capire, testi alla mano, se e quanto sia radicata la poesia di Leopardi tra i contemporanei. Ma non era questa, o almeno non era solo questa la strada da seguire. Perché a evocare quella presenza sono mille e mille cose, sensazioni, ricordi, speranze, attese vane, grida di bambini, memorie di un passato che proietta non la sua ombra ma la sua luce fino ai nostri giorni. A evocare quella presenza è un borgo dove possiamo ritrovare le nostre radici in una notte “dolce e chiara…”. Ai due capi del filo ci sono due poeti americani che ci sorprendono. Una, Emily Dickinson, perché si affaccia dall’ Ottocento, come una grande madre, icona di una scrittura lirica e visionaria mai finita di interpretare. E all’altro capo Raymond Carver, conosciuto soprattutto come narratore, sofferto, asciutto, di fatti più che di sentimenti. Entrambi parlano di attesa, identificando la felicità con l’Altro finalmente raggiunto, non importa quale sia il luogo, se la terra o il cielo del desiderio e di una vocazione mai sopita. In mezzo, versi e commenti che ci accompagnano nella lettura come se se assistessimo alla tessitura del libro nel suo farsi: ognuno può gustare le sue scoperte, ritrovando volti conosciuti (da Saba a Kavafis, da Ungaretti a Rebora, da Montale a Lalla Romano e Antonia Pozzi) e volti nuovi. Molti sono gli autori che prediligono la lingua dell’origine, il dialetto, ai quali Anna De Simone ha dedicato libri e saggi, dai più noti come Franco Loi, Virgilio Giotti, Nino De Vita, a quelli esiliati o appartati per scelta, come Basilio Luoni. Tutti sono accomunati dallo stesso amore per la poesia dichiarato in apertura nella dedica: “Agli amici poeti senza i quali niente del poco che ho fatto sarebbe stato realizzato”. Concludo questa breve nota con i versi di Pierluigi Cappello (qui a pag. 17), che ci ha lasciato quasi un anno fa, al quale il libro è dedicato in memoria: “… Siamo l’acqua versata sulle pietre dei morti / sul filo teso tra la preghiera e il canto / siamo la neve dentro le cose / l’ occhio cui tutto allucina, tutto separa / e vivere è un minuscolo posto del mondo / dove stare in giardino”.
Maria Grazia Maiorino Pubblicata su Poesia, Crocetti, n.342, Novembre 2018
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SILVIA di Maria Grazia Maiorino
Silvia corre per le scale scende nella piazza vuota perché ogni domanda nell’attesa è consumata Silvia e il suo cappotto grigio
Lui ha viso di silenzio lui ha mani grandi grandi ha giocato con l’amore e poi l’ha buttato via senza sapere senza sapere
Che cosa si sono rubati sulle spiagge deserte di un’isola lassù sui muschi spessi e i fiori piumini di notti giorno che no non torneranno più
Che cosa si sono rubati quando le sue carezze erano curiose come i primi passi dentro un paesaggio nuovo e lei vestiva di tramonti
Capo nord d’un altro cielo baci nascosti nei sacchi a pelo profumo del suo maglione peruviano sulla piattaforma di un treno
Quelle mani grandi grandi non la fanno più volare nella sera di novembre si vorrebbe addormentare senza pensare senza pensare
Che cosa si sono rubati sulle spiagge deserte di un’isola lassù sui muschi spessi e i fiori piumini di notti giorno che non torneranno pìù
Non gli dice una parola resta fuori dal portone il vecchio amico un po’ distratto un po’ istrione Silvia accende una candela
Il sacco a pelo dei suoi viaggi è lì a terra che l’aspetta il palazzo occupato dalle donne sta dormendo fuma un’altra sigaretta
Silvia e il suo cappotto grigio Silvia sola sola sola Silvia vestita di viola di tramonti di parole Silvia oh Silvia vestita d’attesa di nostalgia Silvia innamorata della sua fantasia.
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