Maria Grazia Maiorino:
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da IVª di copertina La donna sognò cento finestre ardere in un grande castello neve intorno e buio chiaro viaggiavano quietamente le strade fino alla memoria di un angelo svettante sulla città natale
PREFAZIONE
L’autobiografia consiste di due parti, una in prosa e una in versi. Nasce dal desiderio dell’autrice di riunire le poesie, sparse nelle varie raccolte finora pubblicate, che direttamente o indirettamente hanno un riferimento alla città natale e dintorni, partendo dall’assenza e dalla rimozione per ritrovare il filo di ricordi che assomigliano ad apparizioni. Al centro c’è il Taccuino bellunese, che non a caso dà il nome all’antologia: si tratta di un poemetto, suddiviso in nove sequenze e sgorgato quasi sulla soglia del nuovo millennio, durante un passaggio esistenziale molto difficile. La poesia è ispirata dal ritorno nell’unico luogo dove in quel momento chi scrive può sentirsi a casa, le percezioni sono forti, improvvise, il paesaggio, gli incontri, i dettagli, tutto prende forma di visione, fino agli ultimi versi messi in clausola: “ Vibrò / anche se quelli non erano i suonatori / anche se quella non era la musica / vibrò / (strumento vivo seme nella terra)”. Una rinascita, il dono di una inaspettata energia per riprendere lentamente a vivere e a scrivere, lungo un cammino interiore umile e faticoso, segnato da perdite immedicabili e continue trasfigurazioni. Nell’attesa che i ricordi mutino in preghiera prendono corpo figure salvifiche, tra cui quella dell’angelo, e infine si fa strada una poesia religiosa nel senso etimologico più ampio. Il Sé è compreso, nella forma rotonda di un mandala junghiano, costruito intorno a una fontana e divenuto immagine ideale di città: fra sogno e illuminazione lo sguardo si alza sempre più in alto, dove fanno corona le montagne come paradisi mai scalati e l’angelo dorato svetta sul campanile deL duomo come l’incarnazione di un simbolo. La prima stagione che ricordo è l’inverno fa qui da introduzione, mantenendo il passo della fiaba e del racconto poetico. E’ un grembo, nel quale si cerca di rammemorare la voce infantile, la musicalità del dialetto, il colore speciale e vivido di microcosmi gravidi di invisibili promesse, come semi destinati a sbocciare. I ricordi sono cangianti, non vengono fissati una volta per sempre con nostalgia compiaciuta, l’attenzione è rivolta a ciò che anticipa un futuro che, nel frattempo, è diventato a sua volta passato, si intuisce la lezione di Benjamin. Primissimo dopoguerra, la bambina che di quella guerra è figlia, nata da un padre arrivato dal sud, ufficiale non più ritornato in caserma dopo l’8 settembre, e da una giovane bellunese, sposata nell’antica chiesa di Santo Stefano. Il cortile fra le case a rappresentare tutto un mondo fatto di cose semplici, al confine fra una civiltà contadina legata ai ritmi della natura, ai riti della devozione cattolica, alla presenza di figure magiche e misteriose ancora vive nella fantasia di chi aveva imparato a raccontare storie nei filò, e l’incipiente modernità. La magia della neve, il primo albero di Natale, le avventure della campagna e delle rive del Piave nascoste dai canneti, la prima comunione, l’amore per i libri, amici fedeli nelle lunghe ore di silenzio e solitudine. Finché l’incantesimo si spezza, la famiglia si trasferisce al sud, nella terra del padre, una specie di controcanto dove il candore della neve si tinge di scuro, si attutiscono i colori, i contorni di cose e persone sbiadiscono, tacciono le storie. Ci vorrà tempo per scoprire i “santi” del sud, i profumi, la bellezza, la forza del lascito paterno. Per ricucire i frammenti in un’unica appartenenza, che va oltre i confini di un paese e cerca il suo approdo in un territorio spirituale di carattere mistico.
ALCUNI TESTI:
Cortile. Solo adesso mi accorgo di quanto sia bella questa parola, sempre pronunciata in italiano, un suono con le ali. Parola-mondo per disegnare un luogo perduto e ritrovato. La casa di via Feltre non c’è più, al suo posto è sorto un nuovo condominio, ma continua a vivere soprattutto in quello spazio esterno come se fosse una casa speciale, aperta, e più vicina di tutte le altre, venute dopo, alla strada, che allora non rappresentava un pericolo perché il traffico era scarso e c’erano larghi marciapiedi, dove eravamo lasciati liberi di camminare per brevi tratti. Dal cancello vedevamo passare molte persone che andavano a piedi o in bicicletta, una volta ci appostammo appena fuori fingendoci bambini poveri che chiedevano l’elemosina, e una vecchia ci diede alcuni pezzi di pane abbrustolito, dicendo che aveva solo quello. Una bravata, forse un pentimento, accompagnato dall’eco finale di una voce che si allontanava dicendo:“pori fioi”… Gran parte del calore che emana ancora il davanti della casa di via Feltre è legato a tutto quello che accadeva nel cortile, uno spazio ampio, separato dalla strada ma aperto tra le case e i muri di cinta, abbastanza largo da poterci girare in bicicletta e da lasciar passare l’auto dell’unico proprietario, che aveva anche una rimessa, accanto alla quale c’erano i fili in comune per stendere i panni. L’aperto, anche d’inverno, era lo spazio preferito dei nostri giochi e delle piccole avventure dettate dalla fantasia, come costruire una capanna in fondo, nell’angolo più nascosto dietro la casa, partire per immaginarie spedizioni fino alla riva del Piave, allestire bancarelle, riempire album di figurine e scambiarcele fra di noi, fare lunghe partite a carte, e per le bambine, da sole o in compagnia, c’era il gioco eterno delle bambole. L’amicizia nasceva naturale e forse imparavamo dai grandi a chiacchierare tra noi, imitando le loro ciacole che non mancavano mai: le zie, le amiche della mamma, i parenti, i nonni, il nonno Bepi soprattutto, lui trovava sempre il tempo di raccontarci una storia, di scattarci una fotografia, di farci uno scherzo, di giocare con i gatti che gli andavano incontro quando arrivava. Forse era sempre lui a curare la lunga striscia di terra lungo il muro di cinta. Risuona il rumore dei passi sulla ghiaia, risonano parole basculanti, cadenze vagamente orientali di consonanti prive di vocali, mazaròl, géscol, listòn, andòn, campanon, nadàl, parole danzanti nella memoria, affettuosamente attaccate a un sentimento ritrovato nei suoni e nei ritmi della poesia – niente di simile nei dialetti incontrati altrove, o negli echi delle parlate assorbite quando abitavo in altri luoghi ed esse fluivano nella mia, plasmandola secondo una musica diversa da quella dell’infanzia. Che cosa è rimasto nella mia voce? Nel mio accento? Non lo so, ma se dovessi scegliere un dialetto per esprimermi in versi non potrebbe essere che quello veneto, la lingua materna, quella che si parlava nel cortile dell’infanzia. |
S’illuminano di gialli paglierini
S’illuminano di gialli paglierini rosa verdemare le facciate delle case bianco ghiaccio il campanile a prua l’ultimo giorno dell’anno Belluno è una nave e la sua isola porta con sé come un mandala intorno a una fontana la consunzione è tempo lucido pietra rossa delle soglie ciottoli sporgenti del covolà la piazzetta sospesa su una rete l’acqua che canta per sé sola
ho sfumature minerali vene che scorrono nei monti piene rimbalzanti di torrenti e placide rive fluviali fisso qui l’immagine materna prima dello sfaldarsi in grigie nebbie marine salire alati rasentando antiche mura a un centro silenzioso di città dove alberi di natale stanno beati di luci colorate e d’oro e tetti coronati da una stella cometa
(da Di marmo e d’aria, 2005)
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In una terra chiamata esilio la donna orfana dei suoi avi incominciò a immaginare che spuntassero ali e argenti di spade in cima ai campanili cercava l’angelo a vesti sciolte nel vento impresso come sigillo nel cuore ma le apparivano spoglie le chiese coppe vuote a portare i suoni delle campane cadevano notti senza mantelli nebbia spessa addii di sirene
La donna sognò cento finestre ardere in un grande castello neve intorno e buio chiaro viaggiavano quietamente le strade fino alla memoria di un angelo svettante sulla città natale
(da I giardini del mare, 2011)
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La mia è stata un’infanzia cittadina. Al sud credo di non aver mai visto la campagna favoleggiata da mio padre, con la masseria dove voleva ritirarsi in vecchiaia, la vigna, l’uliveto, il bosco di castagni. Ricordo profumi e sapori perduti di mele limoncelle, uva fragola, percoche, fichi, che venivano da quella campagna, ma non ho mai raccolto dal ramo uno solo di quei frutti. Non si facevano gite, nemmeno nei dintorni, mio padre non guidava e pochi avevano la macchina allora. Un’eccezione la domenica trascorsa ai laghi di Monticchio, nel cuore del Vulture, non lontano da Melfi. Il lago piccolo completamente circondato dal verde cupo dei boschi e il monastero, incastonato nella vegetazione come un miraggio. Bellezza lontana. Senza stagione. Quando finiva la scuola si partiva. Le estati bellunesi trascorrevano fra cortile e listòn, ma le montagne e i grandi alberi dei giardini le custodivano come numi protettori, e la luce lasciava sulle cose un’impronta luminosa che la memoria un giorno avrebbe ritrovato. La città sconfinava nella campagna, dove c’erano le ville delle famiglie benestanti e le vecchie case dei contadini, che lavoravano per loro, e si cominciavano a costruire le prime villette, circondate da prati fioriti e orti. Al mercato delle erbe arrivavano le vecchie con la gerla piena di mirtilli, venduti a bicchieri e raccolti in cartocci, che portavano il profumo dei prati di montagna. Scendere fino alla riva sassosa del Piave era come andare in un luogo selvaggio, con le infinite sorprese dell’acqua e delle storie raccontate dal nonno. Raramente ci si arrampicava sui monti, i sentieri si perdevano nella loro solennità di giganti per noi bambini, tranne uno, familiare, facile da percorrere: quello che sale da Cusighe alla chiesetta di San Liberale, costruita su uno stretto terrazzamento dal quale si domina tutto il panorama della Valbelluna. Ma lo sguardo infantile era fisso sul dettaglio: in primo piano c’erano le grandi mele verdi e rosse che pendevano dai rami degli alberi, piantati nel ripido pendio del campo sotto la chiesa. Sono rimaste così, come sospese nel vuoto, imprendibili, e nello stesso tempo vicine da poterle toccare e mangiare con gli occhi. Le mele di San Liberale assorbivano per la bambina ogni altra bellezza, ma isolare un dettaglio non è quello che fanno i poeti? Lei allora non aveva le parole per dirlo, ma quando ormai adolescente, arrivata ad Ancona, si trovò di fronte per la prima volta a un campo di grano ancora verde, con le macchie rosse dei tulipani selvatici, scrisse la sua prima poesia. E invece di correre in mezzo al grano in una specie di ebbrezza, come quando era corsa incontro al mare sulla spiaggia di Caorle, affidò alla pagina bianca il suo sogno di felicità. Vorrei correre, libera andare... Mi chino, accarezzo un petalo delicato, colgo un fiore profumato, e sono felice, felice di poco,... di nulla (marzo 1960). In quella che sarebbe diventata la sua città di adozione, la poesia venne prima del diario, iniziato il 16 giugno 1962 e mai più interrotto.
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Bambina in pellicciotto maculato davo la mano
Padre
trapiantato in una piazza conchiglia
Incisa
nella somiglianza e ombra divisa
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Maria Grazia Maiorino:
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