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Maria Grazia Maiorino:
La Prima Stagione che ricordo è l'inverno. infanzia Bellunese
Note di antonio chiades (Testo fornito da Maria Grazia Migliorino)



LA BELLUNO DI UN TEMPO RISCOPERTA
ATTRAVERSO UNA LIMPIDA VOCE POETICA
 

Note di Antonio Chiades a:
"La prima stagione che ricordo è l'inverno. Infanzia bellunese"

 

“Riconosco subito la casa
anche se l’orto è spoglio
una vecchia s’affaccia sospettosa
chiedendomi se cerco qualcuno
le rispondo cerco la mia infanzia…”.

Con questi versi nitidi e incisivi, rivelatori, la poetessa Maria Grazia Maiorino esprime compiutamente la sintesi del suo ammaliante libro “La prima stagione che ricordo è l’inverno”. E’ dedicato ai primi anni di vita, trascorsi a Belluno dove è nata, nei quali si immerge con memoria lucida e nostalgicamente commossa, fra sensazioni riscoperte e vibratilità interiori che ancor oggi costituiscono una sorta di filo conduttore al suo esistere. All’infanzia, infatti, è rimasta teneramente legata, dopo che le alterne vicende l’hanno posta a contatto con altre realtà: dapprima nella Basilicata paterna e successivamente ad Ancona, dove si è stabilita dall’adolescenza, insegnando per molti anni lettere nella città marchigiana.

La madre, invece, era bellunese e da qui le è derivato quel radicale attaccamento ai profili dei monti, agli angoli caratteristici, alle persone, a momenti apparentemente marginali ma rimasti impressi profondamente, fino a diventare atteggiamenti del cuore, soprassalti interiori carichi di significati particolari. Per questo il libro, edito con cura ed eleganza dall’editrice Affinità Elettive, si trasforma in una sorta di elegia, dove l’emozione si accomuna e interseca ai bagliori di un linguaggio innervato di finezza e intensità, come la piazzetta di santa Maria dei Battuti, o le rive del Piave che un tempo sono state il regno degli zattieri, o i bianchi angeli del Brustolon che si protendono e salutano nell’antica chiesa di santo Stefano.

La Maiorino alterna descrizioni in prosa e brani poetici di sapiente forza evocativa. Non a caso, già nel 1997, era stata inserita nell’antologia del premio Montale. La sua scrittura è priva di infingimenti formali, autentica, attenta alle aperture del cuore da custodire con pudore e sincerità. Ad Ancona, fra l’altro, conserva assai viva la vicinanza e l’afflato artistico con il grande Tiziano, sul quale si è anche soffermata con acuta sottigliezza interpretativa su due capolavori conservati nella città marchigiana: la sofferta, drammatica Crocifissione e la pala Gozzi, con la Madonna in gloria e i santi Francesco e Biagio.

Tornando a Belluno, la poetessa racconta di sé: “Sono nata nella piazza conchiglia una domenica di Pasqua, quando la guerra era finita e stava per iniziare la repubblica, ma non ho più nessuno che possa descrivermi la casa. Rimane soltanto quell’affaccio sulla morte dei partigiani appesi ai lampioni, unico racconto rimasto. In loro onore il nome Campitello venne cambiato in Piazza dei Martiri. Ma per me è rimasta sempre piazza Campitello, il Campedel dei bellunesi, con i caffè all’aperto e perfino le orchestrine, con i giardinetti, la fontana rotonda, i portici, il listòn, e il Teatro Comunale in fondo, nella cornice immensa delle montagne”.

Nei brani in prosa è tutto un rincorrersi di “apparizioni”, che si trasformano in fissità incancellabili, come la luce di Belluno: “Ti inonda, alla fine di un lungo grigio inverno vissuto al chiuso. Eccola là, abbagliante, appena discesa dal candore delle montagne incappucciate di neve, che lei scolpisce nell’azzurro come statue di giganti a tutto tondo. Gli occhi percepiscono i volumi quasi come in una visione dall’alto – difficile spiegare – niente appare piatto o piccolo o insignificante. La luce ti cattura in una specie di energia, ti sferza, ti costringe a esserci in modo più presente, a opporle una sorta di resistenza con ogni fibra del tuo corpo”. E poi, nei ricordi d’infanzia, vi è l’arrivo di san Nicolò, con due grandi piatti d’argento per i doni, i giocattoli vecchi e il fieno per l’asinello: “La sensazione certa è la scoperta che esisteva un grande mistero nella notte e che quel mistero conteneva una promessa di felicità”. Le descrizioni, nel libro, toccano poi altre realtà, come l’asilo Cairoli, frequentato poco prima del trasferimento al sud, dove “tutto era nuovo e difficile”. E, ancora, il carnevale con il veglioncino dei bambini e la scrittrice Maiorino “infagottata nei soliti abiti, timida, muta, in disparte, anche allora probabilmente un po’ incredula e incapace di immedesimarsi nel rituale sconosciuto di quella festa”.

Nel capitolo dedicato al cinema Italia, dove c’era una piccola bancarella con straccaganasse, rotelle di liquirizia e carrube, emerge invece la consapevolezza del mutare del tempo: “C’era un’altra misura delle cose nella nostra infanzia, tutto era più piccolo e raro, oggetti e merci non ti invadevano come oggi, a partire dagli occhi. Siamo viziati da bisogni indotti, mentre eravamo nati poveri, quando il cappotto si rigirava, si cambiavano colletti e polsi alle camicie, si andava a letto senza televisione, si comprava il ghiaccio da mettere nella ghiacciaia, si inventavano giocattoli con stracci, sassolini, foglie e tanta fantasia. Facevamo teatro senza saperlo, recitando le storie dei desideri e dei libri, bastava essere in due in una stanza per diventare principesse e cavalieri”.

Antonio Chiades
 

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