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Maria Grazia Maiorino: Lo sguardo che si alza
Moretti e Vitali ed. 2022- (poesie - Brevi riflessioni - Haiku)

Intervista di Grazia Calanna
s
u "l'EstroVerso"  febb 2023 

Note a cura di Guido Garufi
Arcipelago Itaca - Atelier d'Inverno

Cadore, anno LXXI Marzo 2023
note di Antono Chiades

 

 

Recensione di Masimiliano Mandorlo

 

da I° Risvolto di copertina
 

La nuova raccolta di Maria Grazia Maiorino, è un testo sfaccettato e ricco di immagini che testimoniano un inesausto bisogno di ripensare alla propria vita, di misurarne la consistenza, di vagliarne le contraddizioni segrete e di riconoscerne gli spiragli intermittenti di bellezza. Benché il passo dei versi si sposti tra spunti, visioni e forme molto varie, tra ricordi altalenanti, tra figure di mare e di terra, una sorta di segreta ansia sembra, all’inizio, intridere la voce dell’autrice: spesso i suoi pensieri tendono a “sentieri irraggiungibili”; alcuni luoghi del suo passato assomigliano a “stanze vuote lavate dal pianto”, e le sue mani, a ripensarle ora, si rivelano “troppo piccole” per le carezze che avrebbe voluto offrire a chi invece è fuggito altrove, chissà dove, chissà perché. Di fronte a questo vacillamento intimo i ricordi sbandano, rischiano di smarrirsi. Eppure qualcosa come un risveglio spirituale si è compiuto, a un certo punto, nel cammino della poetessa, e la raccolta sa testimoniarlo con poesie e prose poetiche di rara intensità. Lo sguardo di chi scrive, allora, comincia a inarcarsi verso il cielo, verso la scala di Giacobbe, verso “la via / dove abita la luce”. Il bisogno radicale di sentieri “altri”, di incontri con la madre di Dio o con grandi spiriti di artisti accende le partiture testuali e le fa vibrare come nel “risvegliarsi di un canto” angelico. Ciò che la vita non ha dato rinasce come il “giardino di una sconosciuta libertà”: il dolore di essere stata abbandonata da un sogno d’amore diventa la gioia di abbandonarsi a tutto ciò che viene come in una danza, in un dolce esercizio acrobatico o in una trance mistica.
In copertina: Cattedrale dell’Assunzione, nel Monastero della Trinità di San Sergio, Sergiev Posad, Russia, 2011. Fotografia dell’autrice
 

Ed. Moretti e Vitali, Bergamo, 2022

Stampa: Global Print Srl, Gorgonzola (MI), gennaio 2022

 

LA SCALA DI GIACOBBE

Postfazione di Paolo Lagazzi

Guarda, le scale servono a innalzarci

Christina Rossetti

 

Lo sguardo che si alza di Maria Grazia Maiorino è un testo sfaccettato e ricco di immagini che testimoniano un inesausto bisogno di ripensare alla propria vita, di misurarne la consistenza, di vagliarne le contraddizioni e di riconoscerne gli spiragli intermittenti di bellezza. Benché gli intrecci, le volute e gli stacchi dei versi si spostino tra spunti, visioni e forme molto varie, tra ricordi altalenanti, tra figure di mare e di terra, tra Urbino sentita “come la gioia di un pensiero nascente” e Milano “fluviale”, o tra la silhouette di Audrey Hepburn e quella di Marilyn Monroe, benché la pulsione espressiva spinga l’autrice verso una grande “libertà di stili e formati”, una sorta di ansia dolorosa e segreta (l’“ansia sottile dell’assenza”) sembra, all’inizio, segnare ovunque la sua voce: spesso i suoi passi si sciolgono in “pensieri / fermi davanti a un bivio della mente” o tendono a “sentieri irraggiungibili”; alcuni luoghi del suo passato somigliano a “stanze vuote lavate dal pianto”, e le sue mani, a ripensarle ora, si rivelano “troppo piccole” per le carezze che avrebbe voluto offrire a chi invece è fuggito altrove, chissà dove, chissà perché. Di fronte a questo vacillamento intimo i ricordi sbandano, rischiano di smarrirsi, di sbriciolarsi come cenere fra le dita. Eppure qualcosa come un risveglio spirituale, un incontro con una misteriosa “energia di vita” si è compiuto, a un certo punto, nel cammino della poetessa, e la raccolta sa testimoniarlo con poesie e prose poetiche (frammenti di un diario sui generis, simili a tarsie musive) di rara intensità sapienziale. Pur non scordando mai i semi e gli arbusti dell’umiltà, la grazia delle cose e delle creature più povere e semplici, lo sguardo di Maria Grazia Maiorino comincia a inarcarsi verso il cielo, verso la scala di Giacobbe, verso “la via / dove abita la luce”, verso quell’“alto” che Cristo indicò a Nicodemo come la sola prospettiva di salvezza. Il bisogno radicale di percorrere sentieri “altri”, di ritrovare la madre di Dio nel Magnificat o nell’Ave Maria (e con lei la “barca che costeggia / l’isola dell’anima”, la gioia e il tremore fra cui “l’eternità si stende”) e il desiderio di visitare luoghi sacri conversando con grandi spiriti di artisti (dal Guercino o dall’amatissimo Tiziano fino ad Andrej Rublèv) accendono le partiture testuali e le fanno vibrare di fruscii, mormorii, litanie, inni, raggi, scintille come nel “risvegliarsi di un canto” angelico. Ciò che la vita non ha dato rinasce, nella “misura smisurata del perdono”, come il “giardino di una sconosciuta libertà, sciolta da legami, vertiginosa per lo spazio che addita”; il dolore di essere stata abbandonata da un sogno d’amore diventa la gioia di abbandonarsi a tutto ciò che viene come in una danza un po’ ebbra, in un dolce esercizio acrobatico o in “una musica di uccelli che scompiglia / l’ordine geometrico” del mondo. Così, ondeggiando tra le esperienze del pellegrinaggio e il vuoto delle “parole senza ormeggi”, tra altari e “raggiere d’erba”, tra figure di santi e cori di grilli, tra lo sfogliarsi dei petali delle rose andine e il “firmamento” del glicine, o fra i “tetti dove abitano i gabbiani” e il vento della bellezza ineffabile, l’anima di Maria Grazia ci invita a riscoprire “quel fiore vivo di fiamma e / spada” che è il nostro legittimo sogno di felicità.

Paolo Lagazzi
 

INDICE

N.B. Cliccare sulle voci sottolineate per visionare il testo

        Le voci rosse si riferiscono a testi già pubblicati

 

Passaggi

  9

Mare e nebbia

13

Passaggio

12

Ballata di Luisito

13

La lettera

14

Dal Sinai a San Pietroburgo

15

Litania

16

Questa Italia

17

Senza titolo

18

Vorrei dirti

19

Stazione dell’Alzheimer

20

Piramidi di sandalo

22

Sangue e giada

24

Rimorsi

25

       Marilyn

26

Urbino in un giorno di sole

27

Mani

28

Beethoven

29

Trittico milanese

31

       Sostare

33

L’angelo di Sant’Eustorgio

34

La consegna

35

Anime

37

Deserto 

39

Cavallo bianco

40

Costruire l'amore

41

Sogno

42

Canto alla donna forte

43

l’m Nobody! Who are you?

44

Anche se

45

Ave Maria

46

Il dono delle lacrime

47

Un porto

48

Vent’anni dopo

49

A un frate

50

Il nome

51

L’angelo della felicità

52

Verdeacqua

53

La Madonna di Nagasaki

54

Per sempre

55

Teatro naturale

56

Occhi di Mona

57

Esercizi II

59

Come in una mandorla

61

Dell’abbandono

63

Magnificat, una parola

65

L’umiltà delle parole

67

Tra il velo e le mani

69

Eccomi

71

Un lembo del mantello

73

Suite per un glicine

79

Quaranta haiku (n.6 già pubbl.)

81

La scala di Giacobbe

93

Postfazione di Paolo Lagazzi

95

Note

97

 

 

 

 

Note

 Ho riunito in questa raccolta, la settima dall’esordio del 1994, considerando anche l’insieme di haiku che accompagnano le fotografìe di Giovanni Francescon in Dare la mano a un albero, versi per lo più inediti scritti dal 2016 a oggi, altri già pubblicati in riviste, antologie e blog, e testi meno recenti, rivisitati e inseriti nelle varie sezioni secondo l’armonia di un unico cammino, sia pure variegato e forse azzardato nel suo andare dall’estrema sintesi dei tre versi alla prosa poetica, che io preferisco chiamare scrittura di meditazione.

 

 

 

 

Mare e nebbia

 

Mare assorbito dal silenzio
sei breve trasparenza a riva
si sciolgono i passi nei pensieri
fermi davanti a un bivio della mente -
sentiero dell’altro che non porta a niente
e ti chiude in un bozzolo di nebbia
Sciama fuori
domenica d’aprile       imbocca
la via nuova      fidandoti del mare
quando con voce tersa

                     ricomincerà a parlare

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

INDICE

 

Sostare

 

Ritrovarti Milano affrettata nei passi
sciamare fluviale in mezzo alla gente
fra skyline di grattacieli e strade piane
e di nuovo sostare nell’ora del vespro
chiamata dal candore -
alberini di viburno addossati
alla basilica di San Simpliciano
come se un pittore o un pellegrino
venuto da molto lontano avesse
creato la scena spargendo ovunque
la luce di quel bianco

spiccava a un tratto la targa di marmo
la scritta     Giardino Gina Lagorio
e tutto era quiete     tutto era profondo
nel grembo di velluto oltremare
un’eco della vastità riposava

familiare dopo un giorno la città
l’aria di primavera     lo sbocciare
le mura antiche    le candele    i santi
il risuonare di voci     nel silenzio
fermo della sera    nel giro dei chiostri
nell’andare dell’ultima bicicletta dietro le siepi
la casa di Gadda lì vicino      indovinata
il rosa che si addormentava tra le foglie
l’erba che scuriva come il cielo

INDICE

 

 

Costruire 1’amore

Tesserò i tuoi capelli come le trame di un canto
Franco Battiato

 

Porto la tua anima nei capelli
riscatto di un unico dolore
quando caddero al taglio del barbiere
mazzo di ciocche anonime     disperse
a terra     e spazzate via

Volevi vendere i tuoi capelli
ma per farne parrucche
non andavano bene
così sottili     inanellati e belli
che potevano essere solo tuoi

Anima mia che vivi nei capelli
pesantezza leggera sulle spalle
onda di libertà     senza fermagli
a che cosa sapremmo rinunciare
oggi     per un amore più grande?

Io continuo a inseguire il futuro
come un segugio su tracce di passato
parlo con il lascito di un romanzo
scritto per gioco e imitazione
titolo in oro sulla copertina

Ma chi l’ha detto che bisogna essere seri?

(il tuo Carver dai finali mozzati)

 

 

Vent’anni dopo

 

Amore

che ogni inizio di marzo rimuori
quando gli uccelli si affaccendano ai nidi
rubo per te una sola scintilla
               al fuoco dei ricordi di neve

la fiamma piccola
                insegue la fiamma grande
in una danza forsennata       la bacia
fino alla vetta di un alto monte
che sale     che sale
vertice ondeggiante di diafana unione

e allora c’è un canto in tutta la casa
come qualcosa che si prepara
affidato      a quel poco
che era candela
                    rimasto nel cavo

 

1 marzo 2018

 

 

INDICE

 

A un frate

 

La sua fotografia come un santino
nel libro della prima comunione
il bambino dritto in piedi la fascia
bianca al braccio i gigli nel vaso
lo sguardo alto e fiero
assomiglia alla piccola sposa
inginocchiata a mani giunte
velo e abito d’organdis
(anche lei nella stanza del fotografo
come usava) con gli occhi colmi
di uno spazio più grande

Un destino diverso camminava avanti
ma un giorno li avrebbe fatti incontrare
da vecchi riconoscersi bambini
occhi sempre sgranati sul mistero

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

INDICE                INIZIO PAGINA

 

Dell’abbandono

 

Eloì, Eloì, lemà sabactàni? Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Il grido sale al cielo dalla croce, il volto del padre è nascosto, il mondo intorno viene scosso da un tremito disperato. Noi tutti ci riconosciamo fratelli nel grido di quel cristo. Se perfino lui... E l’infinita lontananza della divinità ci appare come un mistero inquietante.

Non siamo capaci di comprendere l’abbandono, non ci sono ragioni che possano giustificare una perdita di cui non ci sentiamo responsabili: non ci sono più parole, soltanto oscurità, dove brancoliamo come se improvvisamente si spegnessero i lampioni della strada di casa. Che fare?

Altre antenne si affinano. Si moltiplicano le potenzialità degli organi di senso. Dalla desertificazione di una vita sottratta contro la propria volontà a un amore, a un’amicizia, a un lavoro, a una possibilità di riconoscimento e di valorizzazione, a un’energia, che si spegne nella sorgente più profonda di noi stessi, succede la lunga, faticosa costruzione di un giardino che prima non c’era. E il giardino di una sconosciuta libertà, sciolta da legami, vertiginosa per gli spazi che addita. Al posto dei lampioni si accendono stelle, stentiamo a riconoscere la nostra via, ogni sforzo si tende a unire familiarità e miracolo.

“I miracoli sono fatti di ogni giorno”, pensa Herman Gombiner, lo scrittore di lettere, in un racconto di Isaac Bashevis Singer. Così viene un giorno in cui il buio dell’abbandono si trasforma nella luce del suo contrario, il dono, nascosto e promesso nella stessa parola. Il dono. Confermato e rafforzato dall'etimo del francese tardo medievale à bon donner (mettere a disposizione di chicchessia).

Non subire più l’abbandono ma diventare protagonisti di abbandono. Abbandonarsi. Lasciarsi andare al piacere dell’inesplorato, dell'absolutus quotidiano, semplicemente a quello che verrà. Deposti abiti, pregiudizi, ideologie, aspettative, insomma l’intero armamentario che sembrava proteggere la nostra forza e invece era un segno delle nostre paure. Fare il vuoto per ascoltare in esso ogni palpito di vita, compreso il suono di una parola terribilmente bella come questa. Abbandono.

Nell’abbandono ritrovare il corpo dell’altro, cadere tra le sue braccia sicuri che ci sorreggeranno, come nell’amore, nella danza, negli esercizi degli acrobati, nell’estasi dei mistici. Attraversare il vento e farsi portare nella luce di un istante, con la fiducia di avere ali che bastino al volo.

 

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