Maria Grazia Maiorino: Lo sguardo che si alzaMoretti e Vitali ed. 2022- (poesie - Brevi riflessioni - Haiku) |
Note a cura di Guido Garufi |
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da I° Risvolto di copertina
La nuova
raccolta di Maria Grazia Maiorino, è un testo sfaccettato e ricco di
immagini che testimoniano un inesausto bisogno di ripensare alla
propria vita, di misurarne la consistenza, di vagliarne le
contraddizioni segrete e di riconoscerne gli spiragli intermittenti
di bellezza. Benché il passo dei versi si sposti tra spunti, visioni
e forme molto varie, tra ricordi altalenanti, tra figure di mare e
di terra, una sorta di segreta ansia sembra, all’inizio, intridere
la voce dell’autrice: spesso i suoi pensieri tendono a “sentieri
irraggiungibili”; alcuni luoghi del suo passato assomigliano a
“stanze vuote lavate dal pianto”, e le sue mani, a ripensarle ora,
si rivelano “troppo piccole” per le carezze che avrebbe voluto
offrire a chi invece è fuggito altrove, chissà dove, chissà perché.
Di fronte a questo vacillamento intimo i ricordi sbandano, rischiano
di smarrirsi. Eppure qualcosa come un risveglio spirituale si è
compiuto, a un certo punto, nel cammino della poetessa, e la
raccolta sa testimoniarlo con poesie e prose poetiche di rara
intensità. Lo sguardo di chi scrive, allora, comincia a inarcarsi
verso il cielo, verso la scala di Giacobbe, verso “la via / dove
abita la luce”. Il bisogno radicale di sentieri “altri”, di incontri
con la madre di Dio o con grandi spiriti di artisti accende le
partiture testuali e le fa vibrare come nel “risvegliarsi di un
canto” angelico. Ciò che la vita non ha dato rinasce come il
“giardino di una sconosciuta libertà”: il dolore di essere stata
abbandonata da un sogno d’amore diventa la gioia di abbandonarsi a
tutto ciò che viene come in una danza, in un dolce esercizio
acrobatico o in una trance mistica. Ed. Moretti e Vitali, Bergamo, 2022 Stampa: Global Print Srl, Gorgonzola (MI), gennaio 2022 |
LA SCALA DI GIACOBBE Postfazione di Paolo Lagazzi Guarda, le scale servono a innalzarci Christina Rossetti
Lo sguardo che si alza di Maria Grazia Maiorino è un testo sfaccettato e ricco di immagini che testimoniano un inesausto bisogno di ripensare alla propria vita, di misurarne la consistenza, di vagliarne le contraddizioni e di riconoscerne gli spiragli intermittenti di bellezza. Benché gli intrecci, le volute e gli stacchi dei versi si spostino tra spunti, visioni e forme molto varie, tra ricordi altalenanti, tra figure di mare e di terra, tra Urbino sentita “come la gioia di un pensiero nascente” e Milano “fluviale”, o tra la silhouette di Audrey Hepburn e quella di Marilyn Monroe, benché la pulsione espressiva spinga l’autrice verso una grande “libertà di stili e formati”, una sorta di ansia dolorosa e segreta (l’“ansia sottile dell’assenza”) sembra, all’inizio, segnare ovunque la sua voce: spesso i suoi passi si sciolgono in “pensieri / fermi davanti a un bivio della mente” o tendono a “sentieri irraggiungibili”; alcuni luoghi del suo passato somigliano a “stanze vuote lavate dal pianto”, e le sue mani, a ripensarle ora, si rivelano “troppo piccole” per le carezze che avrebbe voluto offrire a chi invece è fuggito altrove, chissà dove, chissà perché. Di fronte a questo vacillamento intimo i ricordi sbandano, rischiano di smarrirsi, di sbriciolarsi come cenere fra le dita. Eppure qualcosa come un risveglio spirituale, un incontro con una misteriosa “energia di vita” si è compiuto, a un certo punto, nel cammino della poetessa, e la raccolta sa testimoniarlo con poesie e prose poetiche (frammenti di un diario sui generis, simili a tarsie musive) di rara intensità sapienziale. Pur non scordando mai i semi e gli arbusti dell’umiltà, la grazia delle cose e delle creature più povere e semplici, lo sguardo di Maria Grazia Maiorino comincia a inarcarsi verso il cielo, verso la scala di Giacobbe, verso “la via / dove abita la luce”, verso quell’“alto” che Cristo indicò a Nicodemo come la sola prospettiva di salvezza. Il bisogno radicale di percorrere sentieri “altri”, di ritrovare la madre di Dio nel Magnificat o nell’Ave Maria (e con lei la “barca che costeggia / l’isola dell’anima”, la gioia e il tremore fra cui “l’eternità si stende”) e il desiderio di visitare luoghi sacri conversando con grandi spiriti di artisti (dal Guercino o dall’amatissimo Tiziano fino ad Andrej Rublèv) accendono le partiture testuali e le fanno vibrare di fruscii, mormorii, litanie, inni, raggi, scintille come nel “risvegliarsi di un canto” angelico. Ciò che la vita non ha dato rinasce, nella “misura smisurata del perdono”, come il “giardino di una sconosciuta libertà, sciolta da legami, vertiginosa per lo spazio che addita”; il dolore di essere stata abbandonata da un sogno d’amore diventa la gioia di abbandonarsi a tutto ciò che viene come in una danza un po’ ebbra, in un dolce esercizio acrobatico o in “una musica di uccelli che scompiglia / l’ordine geometrico” del mondo. Così, ondeggiando tra le esperienze del pellegrinaggio e il vuoto delle “parole senza ormeggi”, tra altari e “raggiere d’erba”, tra figure di santi e cori di grilli, tra lo sfogliarsi dei petali delle rose andine e il “firmamento” del glicine, o fra i “tetti dove abitano i gabbiani” e il vento della bellezza ineffabile, l’anima di Maria Grazia ci invita a riscoprire “quel fiore vivo di fiamma e / spada” che è il nostro legittimo sogno di felicità.
Paolo Lagazzi |
INDICE N.B. Cliccare sulle voci sottolineate per visionare il testo Le voci rosse si riferiscono a testi già pubblicati
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Ho riunito in questa raccolta, la settima dall’esordio del 1994, considerando anche l’insieme di haiku che accompagnano le fotografìe di Giovanni Francescon in Dare la mano a un albero, versi per lo più inediti scritti dal 2016 a oggi, altri già pubblicati in riviste, antologie e blog, e testi meno recenti, rivisitati e inseriti nelle varie sezioni secondo l’armonia di un unico cammino, sia pure variegato e forse azzardato nel suo andare dall’estrema sintesi dei tre versi alla prosa poetica, che io preferisco chiamare scrittura di meditazione.
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Mare assorbito dal silenzio ricomincerà a parlare
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Ritrovarti Milano affrettata nei passi
spiccava a un tratto la targa di marmo
familiare dopo un giorno la città
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Tesserò i tuoi
capelli come le trame di un canto
Porto la tua anima nei capelli
Volevi vendere i tuoi capelli
Anima mia che vivi nei capelli
Io continuo a inseguire il futuro Ma chi l’ha detto che bisogna essere seri? (il tuo Carver dai finali mozzati)
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Amore
che ogni inizio di marzo rimuori
la fiamma piccola
e allora c’è un canto in tutta la casa
1 marzo 2018
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La sua fotografia come un santino
Un destino diverso camminava avanti
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Eloì, Eloì, lemà sabactàni? Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Il grido sale al cielo dalla croce, il volto del padre è nascosto, il mondo intorno viene scosso da un tremito disperato. Noi tutti ci riconosciamo fratelli nel grido di quel cristo. Se perfino lui... E l’infinita lontananza della divinità ci appare come un mistero inquietante. Non siamo capaci di comprendere l’abbandono, non ci sono ragioni che possano giustificare una perdita di cui non ci sentiamo responsabili: non ci sono più parole, soltanto oscurità, dove brancoliamo come se improvvisamente si spegnessero i lampioni della strada di casa. Che fare? Altre antenne si affinano. Si moltiplicano le potenzialità degli organi di senso. Dalla desertificazione di una vita sottratta contro la propria volontà a un amore, a un’amicizia, a un lavoro, a una possibilità di riconoscimento e di valorizzazione, a un’energia, che si spegne nella sorgente più profonda di noi stessi, succede la lunga, faticosa costruzione di un giardino che prima non c’era. E il giardino di una sconosciuta libertà, sciolta da legami, vertiginosa per gli spazi che addita. Al posto dei lampioni si accendono stelle, stentiamo a riconoscere la nostra via, ogni sforzo si tende a unire familiarità e miracolo. “I miracoli sono fatti di ogni giorno”, pensa Herman Gombiner, lo scrittore di lettere, in un racconto di Isaac Bashevis Singer. Così viene un giorno in cui il buio dell’abbandono si trasforma nella luce del suo contrario, il dono, nascosto e promesso nella stessa parola. Il dono. Confermato e rafforzato dall'etimo del francese tardo medievale à bon donner (mettere a disposizione di chicchessia). Non subire più l’abbandono ma diventare protagonisti di abbandono. Abbandonarsi. Lasciarsi andare al piacere dell’inesplorato, dell'absolutus quotidiano, semplicemente a quello che verrà. Deposti abiti, pregiudizi, ideologie, aspettative, insomma l’intero armamentario che sembrava proteggere la nostra forza e invece era un segno delle nostre paure. Fare il vuoto per ascoltare in esso ogni palpito di vita, compreso il suono di una parola terribilmente bella come questa. Abbandono. Nell’abbandono ritrovare il corpo dell’altro, cadere tra le sue braccia sicuri che ci sorreggeranno, come nell’amore, nella danza, negli esercizi degli acrobati, nell’estasi dei mistici. Attraversare il vento e farsi portare nella luce di un istante, con la fiducia di avere ali che bastino al volo.
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Maria Grazia Maiorino:
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