parte letta da
G. Duca
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Cosi,
nuove appena, trascorrono le annate,
sempre strette dal freno
quotidiano degli astri e dei dolori,
dal corso sotterraneo dei semi.
I dodici mesi sono gli apostoli
che ci portano in croce.
Gennaio è un mese doloroso;
nel suo manto nevoso
copre le strade della nostra voce
che cercano il paese.
Gennaio ha tutti i giorni
che i passeri contano nell’orto.
Qualche nebbia per la luna nuova
ci porta a cacciare di frodo lungo le fiumare,
e emettere versi di richiamo nel palmo della mano.
Spesso vediamo la volpe
che a gennaio è sola
e vaga verso i confini;
più vicini, l’airone
e il banco delle anatre germane.
La caccia ci allena al dolore,
fatta per uccidere per guadagnare
il corpo del selvatico che muore.
Con una rossa pelliccia di lepre
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vengono alla veglia i vicini
seguiti dalle figlie accecate
negli abiti celesti da fili di granate.
Si suona un valzer sottile
a gennaio nelle grandi cucine,
dalle vetrine smaglianti di piatti.
Si sogna una festa migliore
e si fa sempre un giro di più
ballando per amore,
mangiando e bevendo per amore,
odiando per amore, parlando per amore,
per l’amore accanito di vivere senza capire.
È il fuoco che pensa per noi
mischiando nei camini la corrente dei venti,
gli accenti delle colline,
le voci pure degli alberi.
Febbraio prepara la scure:
il tempo si rivolta contro l’inverno
e scendono lacrime dai tronchi;
il fumo si rivolta sui tetti
e altre lacrime spiccia.
Febbraio è un ragazzo
che lotta contro il padre,
che cerca nei campi la strada della fuga.
Più larghi sono i segni della neve
e più a fondo giunge il rimorso del ribelle.
Il giorno già si spinge
verso le nuvole dell’Appennino
e porta vicino un forestiero,
un forestiero a tutte le case.
Qualcosa batte sui vetri
prima e dopo del sole,
come se gli uccelli fossero tornati.
Le case cambiano odore
e i contadini escono con la scure.
Guardano il cielo svegliarsi
e sentono che altri suoni
si liberano oltre la collina.
Di notte la luna naviga veloce
e porta nel suo grembo
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le case dei vicini ed apre
ripe azzurre di genga
e macchie come leggende.
Domani è già marzo e la strada
scopre tra i frutteti il petto della contrada.
A marzo il contadino
riordina gli attrezzi e libera i confini.
A marzo i contadini
scendono verso i paesi;
si fermano nelle piazze mercatali
davanti alle osterie, ai forni, ai falegnami
che odorano sotto i portali di pietra fiorita,
davanti ai negozi di ferramenta,
davanti a tutti gli spacci
con un sentore d’acqua muffita.
I vecchi si fermano alle porte;
i giovani salgono le vie cittadine.
Ormai li mischia aprile,
mese senza paura,
e salgono insieme i mezzadri e i garzoni,
i mietitori, i braccianti, i legnaioli,
i muratori di campagna, gli innestatoti,
gli scavatori di pozzi e di vigna,
i cercatori d’acqua e i cacciatori.
Il giorno nella città non ha paura,
stretto tra le mura è sempre luminoso,
e sempre vive di qualche cosa, ora per ora;
preso alla mattina presto nei mercati,
nella profonda luce che rispecchiano
le facciate nobiliari o i porticati;
guidato per le vie al suono dei selciati
sino ai vertici gentili dei rioni;
alzato a mezzogiorno in fronte alle chiese
su tutte le piazze, una sopra l’altra,
di mattone o di pietra;
non è vinto dalla foglia incerta,
non predato dalle fratte di spini,
non morto nella morte degli insetti;
non arato, seminato, sarchiato,
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faticato ora per ora,
dalla mattina alla sera.
Il giorno gira nella città il suo dolce sole,
muove il ventaglio alto delle nubi,
e chiama dal mare l’amorosa luce serale
che si stende su tutte le terrazze,
sui giardini pensili, sull’arcate
dalle quali soffia l’Appennino.
Si congiunge alla notte per le strade,
quando vicino s’odono risate di ragazze
e verso i torrioni e voci da tutti i portoni.
A quell’ora i contadini
finiscono il primo maggio
e tutt’insieme hanno ancora il coraggio di bere,
di fingersi padroni del loro destino.
In quelle sere ripiegano le rosse
bandiere della libertà d’un giorno:
congiungono le mani nel piegarle,
poi prendono il giornale come una reliquia.
Questo è l’unico modo di lottare
contro se stessi, contro la fatica;
l’unica verità che nella vita
a loro si rivolge, fuori della natura;
è un’altra paura ma la paura
di non sapere abbastanza,
di lasciare la sicura malvagità nella speranza
che domani il sole nasca diverso.
Un altro santo protettore,
un altro dio di confine
è la bandiera rossa sul balcone
della casa nuova sulla strada.
Qui il vicinato s’aduna
prima e dopo che in chiesa,
vede negli altri la miseria
e ne accetta il contagio;
qui si riconosce e si elegge
come un popolo unito.
Cantano uscendo dopo il ballo o l’osteria
la domenica pomeriggio tutt’insieme:
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violentano il paesaggio
d’allegria,
spezzano l’arco della collina,
le macchie, le guglie di terra, i sentieri,
ripetuti ed estesi sino alla marina.
L’isolamento che soltanto ieri
li fermava nei campi, tra le fibre devote
all’universo, solo e muto ciascuno,
oggi s’è perso. La domenica rossa
disperde le sue schiere per le strade
d’acacie e caprifoglio; una minuta
semenza d’affetti e di parole,
una violenza d’amore, di manate,
di tagli della barba, di perline,
di giacche troppo strette o larghe, di biciclette,
di piccoli motori o fazzoletti.
Maggio gonfia i suoi fieni
al vento dei temporali,
allora la famiglia intera
corre con le falci fienaie;
ogni filare percorre sino in fondo
e taglia i soffici lupini, i falaschi, le sulle;
intanto guarda i grani verdi e il loglio,
leggeri come una veste,
mossi piano dal vento, dalle averle,
dalle quaglie che al tramonto
il canto agita e un piccolo volo
innocente muove e lineare
di filare in filare e poi si posa
come una voglia infantile.
Intanto l’opera prepara al frutto dell’arsura,
ai campi maturi di giugno,
troppo carichi, colmi d’avene e grilli,
con la terra che s’apre in crepacci
e, sorelle delle serpi, lucide le falci
tagliano tra il grano, sino al confine
della brocca scura dell’acqua.
È la mietitura che avanza
obliqua per i campi,
che affronta la figura amica degli dei
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e la snida dagli altari di
messi.
Propizia la mezza luna, alta al tramonto,
salda la sua luce a quella solare
e giunge ad imbiancare le pietre del ritorno
dopo il lungo giorno familiare.
Voci più chiare si odono d’intorno,
le voci che rintracciano tra i campi
le comitive dei mietitori e le falci,
i ragazzi che portano gli orci.
Lungo i filari di luna
i piu giovani attendono che passi
la ragazza, quell’una che ha raccolto
la tovaglia dal prato, dopo cena.
Altri s’avviano verso i fossi
o i piccoli fiumi, a pesca con l’acetilene.
Nuotano male nei gorghi sotto le rocce
e s’infangano tra le radici
verso i riposi d’acqua e le cave di sabbia.
Gettano a morire sui prati
una pesca miracolosa
di pesci luminosi e di un’anguilla.
Giugno beve dai fiumi
e di notte la corrente volta tra le ripe,
e nidi di ragno e impronte
aprono le sponde sino alle ginestre,
lì greto come una strada si segna
dei carri dei bucati o di chi dalle fosse
attinge acqua per il bestiame. Luglio prepara tra lo strame
le ferite velenose e fissa nel sole
le cose, per sempre eterne e pure,
muretti, campi, figure,
che invece soccombono in un’ora.
Procedono di sera le battiture
di casa in casa, per tutto il mese:
per le strade e nel cielo, luminose
s’addensano le misure dei raccolti
e delle costellazioni.
Alla fine vanno per mare
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