Caffè Letterari delle Officine |
Il 22 Marzo 2011 a cura di
ACLI-Centro Universitario
all'interno della serie de si parla di:
Parla l'amico extramuros
Davide Bianchi legge dalle "Cantonate di Urbino"
Ed. 1985 pp. 33-35 |
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Bruno Malerba a Michele Gianotti da Facebook https://www.facebook.com/bruno.malerba.9?fref=nf
In quegli anni, vivevamo a Milano non lontano l’uno dall’altro, io e Paolo. Ci si incontrava ogni giorno. Passavo a prenderlo alla Finarte dov’era Consulente, e s’andava spesso in via S. Andrea, la via dei grandi antiquari, prima che diventasse quella degli show-rooms. Nell’avviarci , dietro Piazza Scala, sostavamo in una bottega buia , dove un commesso unto, con fare da Pirelli, ci spalmava una scatoletta di sgombro su due michette. Paolo era uno scrittore già famoso, io poco più che un ragazzo. Quel sabato mattina ci demmo appuntamento in piazza Cordusio. Arrivò con un suo libro in mano ”Con testo a fronte” e prima di donarmelo, in piedi sul muro me lo dedicò “ al mio caro amico Bruno (quel “caro” ancora mi commuove) queste poesie di casa nostra…..sempre progettando e sospirando il ritorno a Urbino, piazza, loggiato, caffè, amici, torrioni e paesaggio, tutti in giro…”. Abitavamo il cuore di una città che non era la nostra, in un groviglio di gente diversa, ed incontrandoci sentivamo il bisogno di rinnovare i gesti familiari di “quella che era la nostra casa vera”. Parlavamo spesso di Urbino, della inutile tessitura caracollante di mura, perimetro angusto e dolce, che fù un tempo prigione . Scorrevamo le interminabili notti d’estate, in quell’indugiare seduti da qualche parte, tra gli effluvi estivi di glicine, a stendere parole come fresche lenzuola sui muri ancora caldi. Fu nella quiete di quelle sere, che si dilatavano a volte fino alle opposte luci dell’alba, lui molto prima di me, che cominciammo a calcolare il tempo ancora necessario per la diserzione. Ed infine, sopraffatti dall’attesa di un malcelato bisogno di libertà, tra speranza e confusione, fuggimmo. Molti anni dopo, malinconici come le note di una fisarmonica, ci ritrovammo, per vie diverse, a Milano. Da allora, tornammo molti giorni insieme in Urbino, pensavamo per tutta la vita, quasi rassegnati, quasi a farci perdonare, con gli occhi spalancati davanti alla bellezza struggente d’allora. Ripartendone, si sperava che durante la nostra assenza, fosse tenuta da conto. Noi l’avremmo fatto se il mondo e la vita non ci avessero agguantati per un filo. Ma non avremmo mai immaginato che l’Università, il Comune, l’Ospedale, il Palazzo, sarebbero stati consacrati a generazioni di figli senza merito e qualità, nipoti, fratelli, suoceri di ricercatori, associati, capi reparto, capi ufficio, capi bidello, bidelli, applicati di segreteria, segretarie, manovali tutti insieme devotamente ossequienti, tutti riconoscenti, a tessere le liturgie dello scambio. Da allora, mestamente, ancora andando verso i Torrioni io e Paolo, conversando e salutando, maturammo la convinzione che il mondo esterno, altro ad Urbino, non fosse così confuso ed ostile. E ci rassegnammo. Capimmo che Urbino era ormai più loro che nostra. Lasciammo la “ nostra casa”, intonsa in un paesaggio intonso, a quelli che credono ancora nella ineluttabilità, nel modernismo. A quelli che dicono che i tempi sono cambiati. A quelli che alimentano il privilegio, volgare e irrispettoso, di violare i divieti: impiegati, viandanti, bottegai, Consiglieri, Assessori e loro postulanti. A quelli che con ogni mezzo hanno spezzato e spezzano ancora la trama dell’impegno civile, solidale, rispettoso. A coloro che non saranno mai sfiorati da un minimo soffio di leggero ravvedimento per il lento, inesorabile, opaco, succedersi delle distruzioni. Gambini ci prometteva grandi viaggi, piste infinite, percorrendo le quali saremmo dovuti arrivare molto lontano da qui. Ci ritroviamo invece in piccole passeggiate, con un uso sleale di scorciatoie, tortuose ed ingannevoli sempre al punto di partenza. Lui è felice senza pentimento, senza ravvedimento, di aver inaugurato la nuova scala da villetta a schiera munita di ringhierina, che buca il Torrione in un improbabile accesso alla Data, anziché riaprire quella naturale, serrata da anni, quello straordinario Monumento Verticale di Francesco di Giorgio “la Rampa, solo per lo Signore riservata”. Che stupido. Che bell’esercizio di fede Gambini. Paolo mi diceva che ormai rumineranno tutto, in maniera intricata e lenta, “come un cavallino di Fossombrone, per lo stradone”. Non c’è speranza. Potremmo stare qui a parlarne a lungo, seduti, le gambe accavallate e grattarci i ginocchi. Loro sono come bambini che giocano, incoscienti di tracciare nell’aria un disegno, in cui loro stessi, saranno vittime e carnefici. Bruno Malerba
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