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Bibliografia

VITTORIO SANTINI:   Maestro - Direttore / Ispettore Didattico

PRETI  1890 - 1910

 

Indice analitico

 

Don Scapcion

Don Paolo

Don Cibisquoque

Don Durante

Padre Filippo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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INIZIO PAG

  

Preti, ricordo di sacerdoti caratteristici esercitanti nell'urbinate nel periodo 1890 - 1910.

 

PREMESSA

Urbino ha avuto sempre, ed in particolar modo nel ventennio di cui si parla, un clero veramente a posto sotto ogni rapporto. Uomini d’oro, zelanti, colti, umili, che hanno onorato la chiesa urbinate con opere degne di cuore e d’ingegno. A quel tempo era prevosto del capitolo il Canonico Mons. Antonino De Via che fu anche preconizzato Vescovo del Montefeltro, ufficio cui dovette rinunciare, credo, per ragioni di salute. Altre notevoli figure erano: il Mons. Valdarchi, teologo di valore e rettore del seminario diocesano che allora aveva tutti i corsi per arrivare al sacerdozio; il Mons. Camici, un vero santo, ed altri che non credo necessario ricordare.

Se qualche eccezione alla regola può farsi, si tratta di qualche prete che il volgo chiamava “preti spiccioli”, cioè sacerdoti non all’altezza del loro compito per qualche deficienza intellettuale, ma  non secondi agli altri per bontà. Se mai un po’, come dirli?, un po’ grossolani per provenire da famiglie rustiche e per vivere in mezzo a rustici e molto modestamente qualche volta anzi nell’indigenza. Ne ricordo alcuni:

Don Scapcion (Scapcion il soprannome) e Don Cibisquoque (ancora il soprannome), non erano, per dir così “graduati”, appena parroci negli anni verdi e “beneficiati” del capitolo in vecchiaia. Sempre originali nel comportarsi, nel parlare (parlavano sempre in istretto dialetto e rurale per giunta), nel disbrigo dei loro doveri sacerdotali e nel trattare con la gente. Semplici di mente e di spirito: “Beati loro, diceva qualche sacerdote, perché il Signore ha detto: Beati i semplici, essi vedranno Iddio. Parole divine che bene potevano adattarsi ai sacerdoti che or ora ricorderò dato, ripeto, che erano buoni, pietosi e, a modo loro, molto più.

E comincio con Don Paolo, denominato Scapcion, appunto perché si portava una capigliatura a zazzera che poco conosceva le carezze del pettine. Quando era nell’esercizio delle sue funzioni in chiesa, guardando la sua testa, il poeta Monti avrebbe usato, per descriverla, i versi della Basvigliana: 

Scomposte le chiome in sulla testa

Come campo di biada già matura

Sul cui mezzo passata è la tempesta…

 Un viso piuttosto arcigno che non si confaceva certo al suo interno sentimento colmo di bontà. Singolare nel modo di vestire con una veste talare sdrucita e rattoppata in qua e là, seminata di notevoli macchie d’unto, d’inverno metteva addosso una giacchetta lasciatagli dal fratello, con funzioni di cappotto e girava per le strade sempre parlando da sé (già il Manzoni giudicò “persona sincera” quello che parla da sé e più sincero di Don Paolo non c’era altri al mondo) o per meglio dire brontolando in continuazione. Diceva un po’ per celia un po’ sul serio.

En ce teng a gì alla moda; i vagh pursia…”

Visse fino agli ultimi anni con una sorella che in quanto a ordine e originalità valeva il fratello, ma un po’ meno. Morì prima di lui per la semplice ragione che era più attempata di lui, quasi novantenne.

Si racconta che la sera prima della morte della vecchia lui si appressò al letto della morente ma ancora in sé, non per raccomandarle l’anima ma per ristorarle lo stomaco con una “pappina” di pane di polenta condita con l’olio avanzato in una lampada della chiesa (si… racconta).

«A vo' Dmnenichina, magnet sta pappina bonina, bonina… L’ho fatta i’ sa le mi’ men…”. E le men di Don Paolo avevano il colore di quelle di un selvaggio dei paesi equatoriali. Aveva altra voglia di mangiar pappina la Menchina che stava per giunger “sul passo estremo”! E voltò la faccia dall’altra parte. Don Paolo senza spazientirsi le disse forte: «La magneret dmatina!».

Più tardi, vedendo che la morente era prossima all’estremo respiro, mandò a chiamare il collega Don Cibisquoque e quando questo arrivò sbuffante per le molte scale che aveva dovuto fare (Don Paolo negli ultimi anni ufficiava la chiesa del Corpus Domini e aveva l’abitazione nella casa annessa che per arrivarvi c'era una scala lunga e ripida) Don Paolo gli disse con la maggior naturalezza di questo mondo:

«Don Fedrik fetme el piacer de ungia le rot ma mi sorella che sta per partì per cl’atre mond». (“Unger le ruote” in tono scherzoso fra il popolo significa dar l’Olio Santo ai moribondi… Sul fare della mattina l’affezionata sorella di Don Scapcion morì e il prete la pianse amaramente ma dentro di sé che in apparenza non dimostrò strazio alcuno. La mattina mentre Don Paolo spalancava la finestra della camera della morta, una donna della strada gli chiese come stesse la sorella e lui col solito tono, direi quasi scanzonato e franco:

«Bnon! (benone) perché ha fatt tombola! Stasera la consegn ma Tmas (Tommaso era il becchino custode del cimitero)».

Riporto un fatterello raccontato da una penitente di Don Paolo a mia madre, che ce lo raccontò a tavola. Una mattina il nostro pretino faceva, sbuffando come un mantice, servizio al confessionale. Quando, soffiando di soddisfazione, credeva di aver finito vide la grata dove pensava non ci fosse nessun altro da… purgare, come diceva lui, intravide la testa di una donna coperta a malapena di un moccichino (piccolo fazzoletto da naso). Gli grida il prete:

«E te quand’è che se arriveta?  E vieni propri adess, ch' ho da gì a di’ la messa, per famm perda el temp?».

«Abbi pacensa sor Don Pavle prima ho dovut guernè le bestie tla stalla (era una contadina)».

«E breva!  Per te el confsoneri vien dop la stalla eh?»

«Oh! en digh quest. Ma capiret che se le bestie en magnen patischen portine (poverine) mentre se i pchet stann qualch moment de piò tla pansa en pesen…. (non pesano)».

«Già, già... Hai fatto la penitensa dell’ultima confessione?»

«E chi ha avut el temp

«Ma el temp per spettegolè l’avrè trovet

«Purtrop sé; perché ho dett mel di pret…»

«Breva la linguacciuta!  Che fastidi te dann ma te i pret

E qui giù una gragnuola di rimproveri contro i diffamatori dei preti che, dicendo male dei preti si dice male del Signore che rappresentano, che i preti sono tutti dei santi e che questo e che quest'altro… E così sfogatosi alquanto chiede alla penitente che aveva ascoltato la intemerata a capo chino:

«Hai altro da confessare?»

«Bsogna che l' digga, che digh mel anca de lei…»

«De me???»

«Già anca de lei».

Immaginarsi le escandescenze del prete e i pugni che dava sulle pareti del confessionale. Un’ira di Dio!

«E csa pó di’ te, linguacciutta pettegola bisoca, de me ch’en dagh fastidi manca ma 'l pen ch’magn (non do fastidio nemmeno al pane che mangio)».

«Dico, dicio quel che diggon tutti»

«E csa dichen tutti?»

«Diciono che lei è un scapcion - e pensò fra sé -  ecca la grandin!»

Ma fu meravigliata sentire nell’interno del confessionale un opprimente silenzio. La testa del confessore si sposta; una mano sposta la tendina che nasconde il confessore; una testa… scapceta ne esce; due occhi si rivolgono dalla parte della penitente in ginocchio, la fissano un po’ ed esclama:

«Anca te se’ tanta poca liscia!»

provocando una lunga risata da parte dei devoti nelle banche vicine al confessionale che avevano sentito il baccano del prete e la sua frase di chiusura della confessione.

 

Don Paolo aveva anche l’incarico di celebrare le funzioni nella chiesa di S. Giovanni in quella bella artistica chiesetta affrescata dai fratelli Salimbeni. Vi celebrava la messa domenicale dopo averne celebrata un’altra prima al Corpus Domini (diceva Don Paolo: alle feste si dovrebbe riposare anzi è obbligo divino ma a noi preti non solo non ci fanno riposare ma ci fanno fare doppia fatica, Ma! Così va il mondo).  Faceva inoltre le funzioni nella festa del titolare (patrono) della Chiesa e faceva il mese di maggio alla Madonna. La Chiesa aveva un altro santo patrono ed era S. Antonio Abate protettore, come ognuno sa, delle bestie. Della festa di S. Antonio ricordo benissimo perché abitavo a Via S. Giovanni, la benedizione di ogni sorta di bestie, che provenivano da ogni parte della città (le bestie di campagna venivano benedette in loco dai parroci foranei, cioè vicari). L’icona del santo veniva esposta fuori della chiesa in un altare quasi da campo con molte candele e davanti venivano portate le bestie da benedire. C’era lì Don Paolo in cotta stola e asperges e man mano che i “da benedire” si presentavano Don Paolo leggeva in fretta, in fretta la preghiera di rito intingeva nell’apposita caldarella (cestello) dell’acqua benedetta l’asperges e lanciava il liquido verso la bestia standogli però a debita distanza perché, diceva lui, "sta gente (gli animali) en boni e santi ma en se sa mei com la prenden la benedizion e pó en se confessen e se i vien la mosca al nes, addio Don Paol".

Quel giorno 17 gennaio era un via vai per la contrada; passavano agghindati di finimenti nuovi o lucidati i ben cavalli del servizio postale di Cecchini (Bibicchia), i ben sauri delle scuderie di famiglie nobili, i cani di ogni razza tenuti al guinzaglio dai loro padroni o padroncine, i gatti infioccati, tenuti fra le braccia dei ragazzi. Dopo la benedizione i “benedetti" ricevevano una pagnottella di pane che si vendeva proprio per loro in una bancherella nei pressi della chiesa. Tutti gli animali sembrava che comprendessero l’importanza di una tale funzione e vi partecipavano seri e solenni, meno i gatti che erano generalmente i più indisciplinati.  Anzi ricordo che a un mio amico che stava di casa vicino, venne in mente di far benedire il gatto di casa, il più furioso e il più ladro dei gatti del contorno, nella speranza che la benedizione divina lo rendesse più quieto, meno ladro. Invece il bel gattone, perché era davvero un bel gatto, acconciato di nastri al collo e alla coda tra le braccia del padroncino viene presentato a Don Paolo ai piedi della statua di S. Antonio e Don Paolo intinge l’asperges nell’acqua benedetta e l’alza sul gattone, il quale vedendosi arrivare addosso quell’aggeggio molto somigliante al mestolo col quale spesso riceveva carezze dopo qualche sua… gatteria, credendo forse che il prete volesse picchiarlo, si libera dalla stretta del padrone e si sfuna contro Don Paolo che a buon conto si ritira dietro l’altare. Il gatto si arrampica su su per la statua facendola dondolare poi ritorna a terra rovesciando parecchi candelieri e candele e via di corsa verso casa inseguito dal padrone e accompagnato dalle risate dei presenti. Sulla porta di casa sua si imbatte in un elegante cane signorile portato al guinzaglio da una vecchia signora e impegna con quello una delle solite zuffe fra cani e gatti e chi ebbe la peggio fu il cane che ben graffiato dal felino si diede a lamentevoli guaiti aita, aita parea dicesse alla sua esterrefatta padrona che se avesse potuto avrebbe accoppato il gatto e forse anche il padrone.

 

Il mese di maggio si risolveva in gazzarre vere e proprie per opera dei più scioperati dei ragazzi che vi partecipavano, che erano veramente molti, per far andare in bestia il celebrante, il quale tra una preghiera e l’altra non faceva che distribuire scapaccioni e calci ai più turbolenti. Talvolta usava la corona stessa una corona con acini grossi e duri molto grande che aveva attaccata al cordone quando era frate carmelitano scalzo.

«Almeno quando siete in chiesa fate finta di essere ragazzi educati».

Si raccomandava Don Paolo. Ma ogni sera si faceva peggio. Una sera le intemperanze dei ragazzi passarono il segno. Alcuni si portarono dietro l’altare dove c’era un vecchio organo e uno s’attaccò ai mantici un altro alla tastiera e giù a tirar fuori note fuori posto finché arrivò Don Paolo che con quattro robusti colpi di corona rimanda i suonatori al loro posto. Dopo qualche tempo alcuni sfaccendati raggiungono il campanile, s’attaccano alle corde delle due campanette e giù a suonare a stormo. C'erano solo poche donne presenti alla funzione che corsero in sacrestia per togliere di mano dei campanari improvvisati le corde con le quali misero in fuga i ragazzacci; i quali riunitosi al grosso della comitiva in chiesa ripresero a ridere scherzare e scappellottarsi facendo perder la testa a Don Paolo che diceva il primo mistero del Rosario quando avrebbe dovuto dire l’ultimo, diceva i misteri dolorosi, mentre avrebbe dovuto dire quelli gloriosi; dieci paternoster invece di uno e una Ave Maria invece di dieci e ogni tanto mormorava:

«Signorin mia, tnetme le vostre sante mani tla testa, se no stasera è la volta bona che mas una dozzina de sti fiol de…. bone donn».

Alla fine si decise di sgombrare la chiesa di quella zavorra e, aiutato da qualche donna bene in carne, tirandoli per gli orecchi li mise tutti alla porta nella piazzetta antistante la chiesa. Restammo in chiesa io e Milton, i più quieti, i più “coglioni” dicevano i nostri amici.  Fuori gli “estromessi” seguitano a far bordello e giunti al canto delle litanie essi in coro rispondono “ora pro nobis” con voci sgraziate alcuni in falsetto, altri in chiave di trombone, quello con “do” di petto, l’altro con la voce dell’asino… insomma sembrava davvero che quella sera una specie di euforia avesse preso tutta la ragazzaglia della contrada… Finito il Tantum Ergo, fuori cala un silenzio foriero di qualche mossa strategica e infatti mentre Don Paolo impartisce la benedizione Eucaristica nel più raccolto silenzio di tutti ecco che la porta della chiesa si apre ed una voce alta e stentorea di uno dei ragazzi “ribellionari” (così li chiamava Don Paolo) si leva gridando “Aaaamen!”

Don Paolo ha in mano l’Ostensorio stringe la sinistra perché questo non gli cada, allunga la destra e dice forte:

«Quel è el fiol de Tugnin senza nes; l’ho arcnosciut! Se te chiapp de fora sta pur content che i calc in tel cul en tutti i tua».

Dopo di che deposita con un gran colpo l’Ostensorio sull’altare e inizia le giaculatorie di rito.

«Dio sia benedetto (e tra sè) ch’en gitti via tutti».

Infatti dopo quell’ultima prodezza i “ribellionari” scapparono tutti per scansare i calci di Don Paolo a funzione finita.

 Un’altra di Don Paolo, che sta a dimostrare la sua ingenuità, mi fu raccontata da mia madre che era in chiesa e aveva sentito le parole del prete. Stava Don Paolo celebrando la messa; dopo la comunione e mentre il sagrestano gli versava nel calice la seconda abluzione chiese ingenuamente al servente:

«Dove hai comperato questo vino che è bon e sincer? N’avria bsogn da compranne un po’ anch’i’ per chesa; quant costa al litre!»

Il sagrestano più in sè del suo prete gli rispose in tono di deferente rimprovero:

«Don Paolo bedi malè che adess en è el moment da parlè de ste rob

«Oh! faccia de … kaiser en vorrè insegnè ma me com ho da comportam quand digh la messa….» Dopo di che il nostro pretino recitò alla meglio le ultime orazioni diede la solita benedizione con una espressione che sembrava dicesse: “Anche questa è fatta!” Non recitò l’ultimo Vangelo e via in sagrestia a litigare col sagrestano che l’aveva mortificato presente la gente…

 

Ed ora vengo a parlare di Don Federico (Vannucci) di Montavorio soprannominato Don Cibisquoque perché durante la messa quando doveva recitare le segrete nobis quoque peccatoribus aveva preso l’abitudine di dire ben forte “Cibisquoque peccatori” ma c’era chi lo chiamava addirittura “Don Cibiscottol”, ma questo non lo meritava però.  Mi è stato detto che si era fatto prete a trent’anni; figlio di rozzi contadini essendogli venuto in uggia zappa e vanga si diede a fare il ciabattino passando di casa in casa colonica a rattoppare scarpe vecchie; poi si mise alle costole del suo vecchio parroco che gli diede sommarie nozioni di latinorum, molto sommarie, ma che gli permisero di frequentare il seminario in qualità di esterno.  Vivendo in una osteria della città e dagli, dagli, come sia riuscito non si sa, arrivò dopo decine d’anni e farsi ordinare sacerdote e destinato in una poverissima cura di campagna in mezzo a rustici robusti perfezionando così la sua natura di rustico e grossolano. Godendo del beneficio di un piccolo poderetto, capitava spesso in città e precisamente nei giorni di fiere e di mercati per comperare e vender bestie. In città era molto conosciuto dai più scanzonati cittadini che lo portavano bellamente in giro. Giravano di bocca in bocca le prediche che lui faceva in istretto dialetto rustico ai suoi più che rustici parrocchiani che lo intendevano meglio se il pulpito di quella parrocchia l’avesse tenuto il celebre oratore sacro di quel tempo, padre Agostino da Montefeltro. Breve concisa e convincente fu la predica sulla esistenza di Dio, eccola:

«Dio c’è e chi en ce cred (chi non ci crede) se faccia avanti che gli do na schiaffa (uno schiaffo)».

Ecco la predica per la vigilia dell’Assunta:

«O magnoni gonfioni! Dmene (domani) è la vigilia della Madonna e arcordet che en se magna manca la ricotta…»

E per la festa:

«Bordelle (ragazze) dmen è la festa dla Madonnina di sette dolori. Nit (venite) prest alla messa e non fetla asptè (aspettare) che la Madonna en è la vostra servitora e po’ en mettetve ados tanti fiocch, tanti gingill, tanti sopracul (specie di cuscini che le donne scarse di sedere e di mammelle, si mettevano addosso per mostrare di essere ben formose)».

(Fra parentesi ricordo che noi ragazzacci specie nei giorni di mercato accostavamo le contadinotte in forma e con un lungo spillo facevamo i … sondaggi o i … collaudi sulle consistenze carnose delle più belle prosperose formosette e se queste lanciavano l’urlo era segno che nulla c’era di … fittizio sotto quelle gonnelle o dietro quelle pettorine ma spesso le donne non si muovevano nemmeno, segno che lo spillo, per quanto lungo, non era arrivato alla superficie carnea e aveva perforato solamente il … surrogato).  

E la predica su questo argomento finiva quasi sempre:

«Vestitevi modestamente che la Madonna non vuol tante … fresche (usando magari una parola più grossolana e sconcietta).  Ve faccio sapere che dmen nirà un pretin giovin, giovin che ha dett la prima messa propri sti giorne; e po’ en è manch brut; prò en è fatt per vuatre perché ha sposato la chiesa e ma la chiesa en se possen metta i… corne, e quest el digh ma le spose… Arcordetve de fè la Comunione in onor dla Madonna ma en ve scordet de confsarv e dir tutti i vostri peccatacci. Se vlet confsav da me, me fet un piacere; se po’ volet confsav dal pret giovin, mne fet trentacinque di piaceri perché ne risparmet una faticheta…. E lavetve i pied che ve pussen, ma tutti: om e donn, grandi e pcini, che appesten…

Altro discorsetto:

«Fioi mia fat i bon perché sta nott ho insognet che tutti i morti de sta parochia en tel caldaron e un angiol m’ha detto che se i mi parrocchieni continuaran a viva dacsè, a bestemmiè, a rubè, a ubriacars quand arriverà la mort l’anima loro uscirà dal loro corpaccio e giò (e in così dire fa con la bocca una potente pernacchia e stende il braccio destra a terra con la mano che fanno i corni) giò da berlicche a ballè tel foch…

«E ghi vl’ha dett, sor pret?”

«Me l’ha detto l’Angelo mentre io dormivo…»

«Salut che bella sborgna che evevet pres iersera! - commenta un uomo - »

«Se mai l’ho presta sa i mi sold…  Ma s' en v'emenderete, e avet sempre temp de fall, quando morirete l’animaccia vostra purificata uscirà dal vostre corp e (in così dire alza braccio e indice al soffitto tirando un potentissimo fischio) so in paradis a fe’ bisboccia con gli angeli e coi santi. Adess set avvertiti e regoletve».

L’eco di queste belle orazioni sacre di queste prediche alla Ségneri (grande oratore sacro del secolo scorso) giunse agli orecchi degli urbinati e invogliò alcuni dei suoi conoscenti a portarsi in loco per ascoltarle e riderci sopra. Qualcuno incontratolo per via glie lo disse e lui:

«Per voialtri cittadini istruiti i miei discorsi non fanno effetto, per voi ci vogliono predicator coi … coglioni duri (per dire predicatori di forza) e siccome io non sono fra questi vi avverto che se vedo voi in chiesa non parlo manch se me mnet».

Gli scanzonati non vollero rinunciare al loro proposito. E in un giorno di festa grossa per la chiesa organizzarono una partita di caccia proprio nelle campagne di Don Cibisquoque. Arrivarono, fucile in ispalla, in chiesa che la messa del nostro prete era cominciata. Entrarono silenziosi e si schierarono nella parete di fronte all’altare e attesero che il prete si rivolgesse per la predica della giornata. Infatti, dopo la lettura delle prime preghiere e del Vangelo in latino, Don Federico si volta verso il pubblico e quando vide quei nuovi fedeli ritti, impalati armati che però conosceva bene, si rivolge al sagrestano e gli dice non tanto piano da non essere sentito anche dai nuovi venuti:

«E chi ficcanes malagiò c’èn nutti o c' hann porteti?”

«E sa so i’! Dians en c’eren…»

Il celebrante non si scompone, tira fuori la scatola del tabacco ne annusa, con gran rumore, una buona presa, poi soffia il naso e dopo questi movimenti dice, rivolto ai parrocchiani:

«Fratei mia, ogg tel Vangele en c’è gnent de bon (oggi nel Vangelo non c’è niente di buono) per quindi en c' ho gnent da di’ e voialtri cacciatori di mi’ stivel git a massè i ras (uccelletti) tla macchia che maché c’èn sol i papagal che prò en se faran cert impallinè el cul da voialtre (che qui ci sono solamente i pappagalli che però non si faranno impallinare il sedere da voi). Sia lodato Gesù Cristo».

«I cittadini delusi se ne andarono dicendo: «C'ha bellamente fregati».

 

 

Due sacerdoti in contrasto FRA LORO per via di due grandi santi

Durante la mia fanciullezza io molto frequentavo le chiese con gran gioia di mia madre, anima veramente religiosa, e con disappunto di mio padre miscredente. Perciò avevo gran domestichezza con preti, con frati, sagrestani, campanari, con il personale della chiesa, che ai miei occhi assurgevano a personalità di alto piano perché personalità da Paradiso. La pompa delle cerimonie religiose esercitava nel mio cuore una potenza sovrumana se non altro perché mi davano il modo di sfogarmi nella mia passione di suonar campane a festa che era il divertimento, e l’ho già detto in altra parte di queste memorie, più sensibile al mio essere. Un divertimento maggiore del teatro dei burattini, del circo equestre, delle giostre che allora non essendoci il cinematografo erano gli unici spettacoli ai quali noi ragazzi potevamo assistere.

Dei tanti sacerdoti secolari o conventuali, che conobbi oltre ai due originali sopra descritti, altri due mi sono rimasti impressi nella memoria; ma uomini di tempra ben diversa dai primi, perché persone serie, colte, precise negli adempimenti dei loro doveri mistici. Una sola cosa li additava all’interesse dei devoti ed era il fatto che erano sempre in lotta, una lotta ideale che fuori di quella andavano in perfetto accordo, ed era non dico l’accanimento ma la vivacità con cui ciascuno sosteneva un proprio Santo al quale dedicavano le loro preghiere e si adoperavano per render solenni le funzioni in loro onore.

Uno, Don Durante, era un canonico del Duomo che officiava anche nella chiesa di S. Giuseppe e si studiava in tutti i modi di esaltare il glorioso patriarca, padre putativo di Gesù, e quando parlava di lui i suoi occhi mandavano sguardi di entusiasmo, il suo dire che di solito era calmo diventava fuoco, specie se qualcuno aveva a che dire sulle virtù miracolose del suo Santo. Suo, non diciamo nemico ma contraddittore, era padre Filippo dei minori conventuali di S. Francesco: grande apologetico di S. Antonio di Padova che era e lo è ancora adorato nella chiesa di S. Francesco nella seconda cappella a destra di chi entra. In onore di questo Santo egli organizzava feste solenni per il 13 giugno con gran concorso di fedeli, organizzava opere filantropiche come le “cucine economiche”, la distribuzione del “pane di S. Antonio per i poveri ed altre manifestazioni di pietà. I due sacerdoti ciascuno nella propria chiesa tenevano prediche sulle virtù taumaturgiche del santo del loro cuore cercando di sovrastarsi l’uno con l’altro. Diceva il canonico:

«Sì, non lo nego e non starebbe certamente a me il negarlo S. Antonio è stato ed è un gran Santo, ma S. Giuseppe, figli miei, dite niente!, è stato il padre “putativo” di nostro Signore…».

Una volta lo interruppe una vecchia bigotta chiedendogli:

«Uh! che brutta parola per un Santo!»

E Don Durante a spiegargli che cosa volesse dire “putativo” ed il ragionamento confuse talvolta i fedeli da convincerli che S. Giuseppe non era il padre vero del Signore calandolo nella loro considerazione. Continua il canonico:

«E quanto lo curò e quanto gli voleva bene! Non lo sculacciò nemmeno quando un giorno si allontanò dai genitori. Lo salvò dalle cattiverie di Erode che voleva ucciderlo; lo nutrì e gli insegnò il mestiere di falegname, ecc. ecc. E poi S. Giuseppe era lo sposo della Madonna non lo dimenticate. E non istate a badare come fanno tanti ignoranti pittori che dipingono S. Giuseppe vecchio cadente e voi stessi insegnate ai vostri bambini di recitare il sermone:

San Giuseppe vecchierello

Porta il foco sotto il mantello

Per scaldare il suo fiolino

Bello, rosso e ricciolino

che no, no, quando S. Giuseppe scaldava il “suo fiolino” aveva appena trent’anni…»

Lo interruppe la solita vecchia che esclamò:

«Iusso! Madonna, Iusso! E i’ che credev che fossa più vecch de mi marit che è bocchet ti ottanta…»

«Che se voi non lo vedere col bambino in braccio sappiate che in braccio ce l’ha portato in carne ed ossa, mentre il bambino che tiene in braccio S. Antonio è di carta pesta;  lui, S. Antonio, non poteva aver portato il bambino perché lui è nato dopo quasi mille anni dopo Gesù; e poi badate bene non è nato a Padova ma a Stoccolma.

Miracoli di S. Giuseppe? A bizzeffe molto più di quelli di S. Antonio prima di tutto perché essendo nato un migliaio d’anni prima ha avuto il tempo di farne di più e poi lui non li strombazzava i suoi miracoli… E quanti ne farebbe ancora ma che volete? Adesso la gente si rivolge a quello là di S. Francesco si rivolgesse a questo (indica la bella statua che domina l’altare della chiesa) che a quello là (allude a S. Antonio) non è nemmeno a casa sua ma è in quella di S. Francesco.  Imitate, imitate i falegnami che il giorno della festa di questo santo lo esaltano facendo un gran banchetto…»

«E molte sborgne… interrompe la solita vecchia».

«Beh! un modo come un altro per festeggiare il santo protettore!»

 

Nella chiesa di S. Francesco è padre Filippo che fa il panegirico del suo Santo in contraddittorio con Don Durante; cita i vari clamorosi miracoli appetto ai quali quelli di S. Giuseppe sono giochi da bambini. Ne racconto uno che ho sentito con le mie orecchie dalla bocca di Padre Filippo; eccolo. Parla il predicatore:

«Nel mio paese annuncia il padre, che non era urbinate ma della provincia di Ascoli Piceno, viveva al tempo in cui io ero novizzo una brava, buona e, diciamolo pure, bella ragazza, che giunta alla età della discrezione desiderava ardentemente di prendere marito. Desiderio più che onesto ma voleva accasarsi bene nel senso che voleva uno sposo non ricco ma adorno di belle virtù morali e religiose e civili. Ma, come spesso avviene alle donne a posto, pretendenti non glie ne capitavano e si capisce la nostra giovane era molto riservata nel comportamento, non andava a ballare, non andava a mettersi in mostra a teatro non usava quelle arti diaboliche per attirare i merli, e nemmeno le arti vaporose della civetteria e della parlantina. E poiché il tempo passava con niente di fatto, essa, consigliata da una zia devotissima di S. Antonio, pensò di fare una novena a S. Antonio del quale aveva in casa una bellissima statua di terracotta sempre contornata di fiori e di lumini…»

«Anca sti servizi fa S. Antoni?»  Insinuò un’acida zitellona.

«Tutti quelli onesti e ragionevoli - rispose secco secco il frate che continuò - Procuratosi un libretto di devozioni antoniane tutte le sere al tramonto la ragazza leggeva con la massima devozione le sequenze al Santo. Finita la novena essa attende l’uomo che fosse venuto a chieder la sua mano. Ma costui non si vede e lei giù a fare un'altra novena che sorte il risultato della prima e la terza come le altre due. Alla tredicesima novena, tre giorni dopo la fine, si presentò in casa della nostra giovane un bel promettente giovinotto che chiede alla mamma se avesse da affittargli una camera modesta e a poco prezzo e siccome camere in soprannumero non c’erano in quella casa se ne andò salutando cortesemente. La ragazza che si era nascosta in uno sgabuzzino vicino al tinello dov’era stato ricevuto il giovane, delusa e sdegnata contro S. Antonio afferra per il collo la statua del Taumaturgo e la scaraventa fuori dalla finestra, proprio nel momento che il giovane di diansi usciva dalla porta di casa della giovane. S. Antonio che era fatto di dura argilla (beninteso quello della giovane) sfonda il cappello duro e arriva sulla cute cranica del bel giovinotto producendogli una larga ferita. Il malcapitato urla e, fremente e furente, ritorna sui suoi passi sale sulla casa da dove era uscito perché aveva capito che il proiettile era partito di lì.  E' accolto dalla madre, la quale si diede premura di medicarlo alla meglio, mentre il ferito dava in ismanie in proteste in minacce che la donna lasciava evaporare facendo di quando in quando scuse e condoglianze (la… causa di questo trambusto al solito si era nascosta nel solito camerino).  Quando il giovane si fu calmato e chiese ragione del lancio di S. Antonio la madre alla ben meglio gli racconta dei desideri della figlia, delle preghiere fatte al Santo dei miracoli e delle speranze deluse specie dopo la visita che aveva fatto il ferito, sfogando il suo malumore prendendosela con S. Antonio facendogli fare il volo dalla finestra.  Il giovanotto prese la cosa in risa e volle conoscere la ragazza che di tanto mal fu causa e chiese per cortesia di far la conoscenza di questa ragazza la quale gli si presentò timida e modesta. Il giovinotto corretto cavaliere si disse lieto di aver fatto la conoscenza di una così pia giovane e la chiese senz’altro in isposa. Fu naturalmente accolta la sua domanda e potete credere con grande entusiasmo da parte della giovane e diamine anche dal richiedente. Il giovinotto che era un giovine onesto professionista mantenne la parola e qualche tempo sposò la giovane davanti l’altare di S. Antonio; fecero gran festa alla quale a me non mi invitarono…»

«Questi sono miracoli! Altro che quelli di S. Giuseppe! Pensate: far un miracolo dopo essere stato gettato dalla finestra! … Però attenti ragazze se avete bisogno di un miracolo del genere non vi venga di maltrattare il nostro santo perché S. Antonio è buono e santo ma … non tre volte!»

Un altro miracolo avvenuto proprio in Urbino, del quale io ho un ricordo perfetto. è il seguente.

Un martedì giorno dedicato al Santo, padre Filippo fece un gran discorso per esaltare le buone opere che si facevano con le elemosine fatte a S. Antonio, lamentandosi che la cassetta della cappella era quasi vuota. Un giovinotto presente non gli credette e la notte nascostosi in uno sgabuzzino della sacrestia uscì a chiesa deserta forò la cassetta e prelevò il denaro ivi depositato dalla carità dei devoti benefattori. La mattina dopo padre Filippo dovette denunciare il furto alla polizia la quale scoperse il colpevole nella persona di uno dei più devoti e dei più assidui alle funzioni in onore del santo.  Questi sì che sono miracoli! esclamò qualche tempo dopo il nostro frate perché la cassetta che al momento del furto era semivuota nella giornata che seguì la manomissione si riempì in modo tale da doverne aggiungere un’altra e raddoppiò lo zelo dei devoti a gettar soldi e soldini pro pane di S. Antonio e minestre per i poveri perché, avrebbe detto Fra Galdino, "noi siamo come il mare che riceve acqua da tutte le parti e la torna a distribuire a tutti i fiumi...”