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MARIA GRAZIA  MAIORINO

RIFLESSONI SULLA PROPRIA NARRATIVA

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SAREI PIù SOLA SENZA LA SOLITUDINE

Riflessioni  di Maria Grazia Maiorino sulla sua scrittura narrativa e, in particolare, sul racconto

 

Il titolo dato a questo incontro è costituito dai primi due versi di una celebre lirica della poetessa americana Emily Dickinson, vissuta a Amherst (Massachussetts) nel 1830 e qui morta nel 1886. E’ considerata tra i più grandi lirici moderni. La sua opera, con l’eccezione di sette poesie pubblicate in vita, apparve in varie edizioni postume incomplete nel 1955 uscì la prima edizione critica.

Il titolo, scelto subito, d’istinto, non prelude alla trattazione del tema della solitudine nella mia scrittura, ma vuole essere piuttosto una provocazione. Nell’era dei social, delle connessioni e della visibilità a tutti i costi, continuo infatti a pensare e a sperimentare che, almeno per me, lo spazio della creatività è una stanza interiore nella quale è possibile raccogliersi, fare silenzio e prestare ascolto. Non una torre d’avorio in cui rinchiudersi, ma un luogo aperto dove poter sentire la risonanza che i fatti reali, i sentimenti, i dubbi, le inquietudini, gli incontri, le fantasie, i sogni, hanno dentro di noi.

Risonanza è una parola importante, viene dalla fisica e dalla musica, la uso per indicare le onde sonore del reale quando ci raggiungono facendo vibrare qualche corda dentro di noi e si cercano le parole per dirlo. Risonanza è stato per molto tempo il titolo delle storie che andavo raccogliendo fin dagli anni Novanta del secolo scorso, in un cammino parallelo a quello della poesia. Ma le raccolte di racconti sono uscite molto più tardi e sono quelle che presentiamo qui: L’America dei fari (2013) e Angeli a Sarajevo(2015).

In un famoso scritto sulla figura del narratore, Walter Benjamin diceva dell’umiltà di cui questi deve dare prova. Chi racconta è qualcuno che sta accanto alla realtà che “sa orientarsi sulla terra senza avere troppo a che fare con essa”. La solitudine così intesa è una condizione esistenziale non più subita come destino, come stigma e sofferenza, ma vista come una compagna necessaria per la consapevolezza di sé e per intessere la propria relazione con il mondo. Relazione è un’altra parola importante per entrare nella mia scrittura e a questo proposito mi piace citare la quarta di copertina della seconda raccolta – non sempre gli autori sono soddisfatti delle sintesi spesso scritte soprattutto per vendere il libro, ma qui sentiamo la voce di una donna, di una lettrice partecipe che ha colto qualcosa di essenziale: “L’anima dei racconti in Angeli a Sarajevo è la relazione vissuta nelle sue varianti amicali, carnali, materne e artistiche. Ci sono amicizie a distanza che si nutrono di parole, di passioni comuni, di confronto, c’è l’amore che vive tra le macerie delle due guerre e ancora incontri che sovvertono l’ordine di una vita. La mente protagonista cuce le esperienze, le vive le rielabora per cercare un ideale porto franco, una nuova “casa delle iris”, un nido finalmente compiuto dove si uniscono solitudini e si genera poesia”. Sono parole ispirate, molto belle, immeritate. Ve le offro perché non sono le mie, perché mi hanno dato coraggio.

E’ vero, spesso i racconti si sono costruiti così, attraverso interviste domande curiosità verso le storie che volevano essere raccontate ma non potevano farlo con le voci dei loro protagonisti. Hanno attraversato la mia intimità per venire alla luce, e questa soggettività trapela di tanto in tanto, non viene nascosta. Chi scrive si mette in gioco, azzarda il discorso metanarrativo, chiede partecipazione e complicità a chi legge. Le storie sono spesso costruite per sequenze, mettendo a fuoco alcuni momenti e lasciando tra un frammento e l’altro uno spazio bianco, che sottintende un passaggio, un salto di tempo e di luoghi. Non si snodano quindi in modo realistico, oggettivo, secondo una trama- sceneggiatura potrebbero forse rientrare nel filone che viene chiamato Realismo magico: affiorano le piccole epopee del quotidiano, i momenti di grazia, in cui la vita non viene fotografata ma ricreata prendono forma le possibilità mancate, le trame della mente e le figure dell’inconscio si intravede un Oltre che è l’essenza di tutto  – questo almeno nelle intenzioni dell’autore.

Nella letteratura italiana il racconto come genere letterario ha una felice tradizione a partire dall’origine, dal Decamerone, fino a giungere al Verismo, alle novelle di Giovanni Verga, di Pirandello, di Grazia Deledda, e ai libri di molti altri autori del Novecento fra tutti mi piace ricordare Bestie di Federigo Tozzi, i Sillabari di Goffredo Parise e Il mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese. Il racconto è un tipo di narrazione che in un certo senso è a metà strada fra poesia e romanzo, e non ha bisogno di architetture complesse. Un racconto può cominciare e finire quando vuole, può essere anche di una sola pagina, o può essere lungo si legge tutto d’un fiato, in mezz’ora o un’ora, e questo mi sembra che nei tempi in cui viviamo possa essere un vantaggio. Ma gli editori non amano i racconti e scoraggiano chi li scrive a pubblicarli.

Le mie storie sono nate dal desiderio di sviluppare qualcosa che sentivo troppo compresso nella sintesi dei versi, nei quali c’erano fin dall’inizio spunti narrativi e personaggi. Ricordo che quando fui invitata a scrivere una paginetta sulla mia poetica, al tempo del mio esordio con E ho trovato la rosa gialla, (1994), scrissi che mi piacevano le poesie che assomigliano ai racconti e i racconti che assomigliano alle poesie e intitolai il testo Metafisica e pettegolezzi: registro alto e basso, epifania e spunto di cronaca, erano già allora presenti e uniti nel mio modo di intendere la scrittura.

Si scrive anche per questo, secondo me, per unire ciò che è separato – pubblico e privato, assenza e presenza, vicino e lontano, i vivi e i morti, il visibile e l’invisibile – nella repubblica dell’immaginazione cadono le ideologie, le divisioni e le contrapposizioni, perché non ci basta più la facoltà della ragione ma ci affidiamo al linguaggio dell’analogia, delle metafore e dei simboli, attingendo alle profondità del cuore, dei sentimenti, che sono universali e accomunano gli uomini e le donne di ogni paese.

A guardarli adesso, raggruppati in due libri che portano nel titolo figure care e ricorrenti anche nella mia poesia, il faro e l’angelo, mi sembra che questi racconti, di taglie, temi e tempi diversi, possano costituire una specie di romanzo-mosaico, nel quale c’è un filo rosso a unire tutte le tessere, una luce, potremmo dire, particolare, quella dello stile. Avviene qualcosa di misterioso nella lingua di uno scrittore, quando si spinge in una regione remota della propria anima egli sente nascere dentro di sé quasi una lingua straniera che detta il ritmo, le parole, l’andamento della frase, e sa che deve porre una grande attenzione alla forma, all’esattezza e al tempo di un verbo, all’imprevedibilità di un aggettivo, per esprimere la sua visione come un’onda risonante, come un raggio di luce.

Nel Novecento con il Modernismo, con scrittori come Henry James, Virginia Woolf, Proust e molti altri, all’idea del romanziere ottocentesco, che offre un ritratto “oggettivo” della realtà, si sostituisce quella di una presentazione “soggettiva” della realtà dal punto di vista di un narratore (o di un personaggio) coinvolto nella vicenda, il quale dà una versione personale degli avvenimenti, li racconta filtrandoli attraverso la sua sensibilità, li interpreta piuttosto che fotografarli, o meglio li ricrea attraverso uno stile, una voce precisa e riconoscibile. In fondo non siamo lontani dalla trasfigurazione poetica e dall’intento conoscitivo di cui la parola scritta vorrebbe farsi portatrice.

“Non è poetico quel voi. E’ strano un sentimento provato per tante donne. Molto meglio che diventino una, che quel voi si trasformi in un tu”. L’identità di Irene, la protagonista che tiene il filo di alcuni racconti, si costruisce sulla pronuncia di un NO. Dire no a un maestro. Dire no a un modo maschile, assoluto e accentratore, di guardare il mondo. Dire no a una visione del femminile che cerchi approvazione, conformandosi ai modelli esistenti, e disegnarne un’altra a partire da uno scontento, da una confusa insoddisfazione sentita proprio nel cuore della rivolta femminista. Il desiderio rimasto vuoto, nonostante la folla di parole che negli anni Settanta sembravano riempirlo, dà vita a una costellazione di storie simile ad altrettante domande. Che cosa farne della poesia? Può esistere una maternità ideale? C’è consolazione per la vecchiaia che ci aspetta? A che cosa servono i ricordi se non possono cambiare il nostro passato? Perché la mancanza a volte ci affascina più della pienezza? Perché la disciplina di un’arte lontana riesce a contenere l’ansia come una melodia del corpo, riportandoci al ritmo naturale delle stagioni? Come si può incontrare l’Altro amandolo per quello che è?

Si è molto parlato del Sessantotto, spesso tentando bilanci che non tornano. Le corde più varie hanno suonato: dalla nostalgia alla tentazione di rinnegare tutto, dal trionfalismo alla rimozione. Forse in questi anni, non più così “formidabili”, la scrittura può ancora permetterci di sostare intorno all’enigma senza cercare testardamente di risolverlo: in zone che appartengono alla storia, alla società, ai singoli individui e sono contemporaneamente senza tempo e di tutti.

Se l’ascolto prevale sul giudizio, se i personaggi ci innamorano, se ci assale lo struggimento per chi non ha voce e un impulso a non dimenticare nessuna vita, forse alla fine un disegno si vedrà, e sarà ogni lettore a vedere il proprio. Ad ascoltare la sua musica entrando in risonanza con la coralità che sale dalle pagine.

Un altro filo importante è certamente la natura, e in particolare la terra marchigiana, dal mare all’Appennino, dal profilo delle colline a quello dei paesi, con i suoi personaggi che aleggiano come numi protettori, con la città di Ancona incastonata come un luogo pavesiano tra desiderio di fuga e nostalgia, tra bisogno di appartenenza e rilkiano sguardo degli addii. Da un porto che è sogno di navi, punto di partenza per viaggi reali e soprattutto interiori, alla continua ricerca di un essere più lieve, capace di piegarsi e di risollevarsi – di spogliarsi nudo come uno stelo di ginestra e di attendere sempre la fioritura. L’aperto spesso evocato per esorcizzare la solitudine, per placare la tensione di pensieri, dialoghi, immagini, ricordi, di rappresentazioni per interni dove le donne sono spesso protagoniste e voci narranti.

Nel raccontare parole e pensieri si associano in modi rotolanti, nel gioco libero delle analogie, come a indicare un altro tempo, soggettivo, onirico, fatto di istanti, di “momenti di essere”(Moments of Being,secondo la bella definizione di Virginia Woolf), ma anche di “momenti di non essere” –vorrei aggiungere – con uno sguardo rivolto al superamento delle antinomie, a una visione unitaria del nostro vivere, nell’accettazione e nel superamento delle apparenti contraddizioni.

 Maria Grazia Maiorino

 

Testo pubblicato, insieme a brani scelti da L’America dei fari, in Angeli a Sarajevo, nel racconto inedito “Body Building” e, infine,  in Frammenti per un personaggio; è riportato anche nel volume La visione del mondo al femminile, a cura di Luciana Montanari, Quaderni del Consiglio regionale delle Marche, Anno XXIII, n. 262, ottobre 2018

 

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