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MARIO AGNOLI GLOSSATORE DEL LINGUAGGIO
un contributo di   Roberto Agnoletti

Pubblicato in "Leopardi News Letter N° 44
Sett/Ott 2017

Nel momento in cui perdiamo un amico o una persona cara, aldilà del dolore e della consapevolezza di non poter più avere occasioni di scambio, nasce istintivo il bisogno di ricordare, di fermare in maniera indelebile la memoria, prima che sia offuscata dalle vicende personali e dalla caducità umana. Non sono la persona più qualificata per ricostruire in maniera esaustiva la poliedrica figura di Mario Agnoli; proprio in questo frangente acquisto coscienza delle mille domande che non gli ho mai rivolto, per una forma di pudore, per un reciproco riservo, e consapevolezza di conoscere pochi elementi della sua formazione, della sua gioventù, del contesto entro cui è maturata la sua personalità; aldilà degli stretti dati biografici e bibliografici mi accorgo di non aver conosciuto Mario nella sua interezza, ma solo per quella parte che mi si è manifestata negli ultimi decenni.   (%continua)

 

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Come ho conosciuto Mario? Anche a questa semplice domanda non mi è facile rispondere. Frugo nei ricordi della mia gioventù e non individuo un momento preciso, distinguibile dalla frequentazione di amici comuni, di eventi letterari ed artistici, dalla condivisione e scambio di testi... Ripensandoci, per me Mario è stata una presenza costante, ma discreta, che inizia a divenire familiare per la ricorrenza della frequentazione, con la quale si acquisisce progressivamente confidenza man mano che, dopo iniziali timidi e brevissimi scambi di opinione, ti accorgi di esser in sintonia (di pensiero, di atteggiamento, di scelte) e finisci per intenderti con un sorriso o uno sguardo, nonostante la differenza generazionale. Sì, perché ci separavano anagraficamente quasi quarant'anni e fino agli ultimi tempi (nonostante che la mia chioma sia divenuta più canuta della sua) il nostro rapporto è stato caratterizzato dal confronto fra generazioni, apparentemente lontane. Possono condividere scelte di vita e linguaggi due individui dei quali uno è nato nel ventennio ed ha vissuto la seconda Guerra Mondiale mentre l'altro si è formato negli anni post contestazione? Usano le stesse parole con lo stesso significato? Possono far riferimento ad un comune know-how?

E qui mi sovviene che Mario avrebbe sbattuto le sopracciglia a sentirmi usare un simile anglicismo... e magari mi avrebbe proposto di rileggere Gilbert Ryle. Proprio nel testo "The Concept of Mind" (1949) di questo filosofo inglese, fondamentale per una teoria della conoscenza, viene introdotta e concettualizzata la differenza tra know-how e know-that, il primo fondato sull'esperienza, il secondo su regole e procedure operative. L'abilità di un investigatore, per fare un esempio, non si fonda solo sulla (pur necessaria) conoscenza di regole e di procedure operative, ma sulla capacità di adottare strategie di azione che chiamano in causa capacità cognitive complesse, (frutto di esperienza, di capacità di riflessione critica sulle esperienze effettuate, di intuizione, di comprensione della specificità dei contesti, ecc.) non facili da verbalizzare e trasmettere ad altri. Il concetto di know-how, secondo Ryle, fa saltare i confini tra saper fare e saper essere e si avvicina a quello di conoscenza tacita o di saper pratico. Le differenze di approccio e di linguaggio fra me e Mario mi sono apparse, per anni, oscillanti fra questi due diversi termini, fino ad accorgersi reciprocamente di condividere una comune conoscenza tacita.

Anche quando ci trovavamo a condividere l'apprezzamento per un lavoro poetico o di arti visive, ne parlavamo partendo da un diverso punto di lettura. Anni fa mi sono trovato a rimproverargli (in senso benevolo) la volontà di voler far sempre l'esegesi di un'opera, anche quando questa, a mio parere, aveva un valore esperenziale più connesso al metodo, al rapporto con il contesto, che un significato intrinseco. Ecco i punti di vista generazionali! Se l'esegesi consiste nell'interpretazione critica di testi finalizzata alla comprensione del loro significato, la sua applicazione a testi di linguaggi diversi (poetici, tecnici, visivi, musicali) presuppone la costante ricerca di valori concettuali e non ammette comunicazione fine a se stessa, né segno scisso da significato. Ecco il motivo della sua perplessità di fronte ad alcune forme espressive delle neoavanguardie artistiche. Ma anche il gesto provocatorio, nato da intuizione e non programmato, all'interno di un contesto determinato diviene significante. Allora ritorna valida anche l'analisi filologica esegetica come strumento di comprensione e divulgazione.

In Mario Agnoli la necessità di operare un'esegesi del linguaggio nasce, ovviamente, dall'esperienza dell'esegesi giuridica, dalla sua formazione ed esperienza professionale in diritto amministrativo. Per ogni studioso c'é una sorta di identificazione tra il proprio essere nella contemporaneità e l'oggetto di ricerca.

Così Mario utilizzava un metodo di approccio alla lettura della poesia e dell'arte contemporanea che trova le sue radici addirittura nella rinascita della scuola giuridica nell'occidente cristiano, in quell'Irnerio che ricomincia a studiare il contenuto dei testi giustinianei per poi spiegarli ai suoi discepoli. La forma letteraria tipica della scuola irneriana è sicuramente la glossa (derivata da Isidoro di Siviglia e da Alcuino di York), che può essere definita come una forma di esegesi testuale realizzata mediante un'annotazione al testo studiato, e cioè come una nota esplicativa che reca un chiarimento letterale, più o meno elementare, di un singolo lemma o dell'intero passo di un testo. Il fine della glossa consiste nell'offrire al lettore una spiegazione grammaticale o linguistica che faciliti la comprensione del testo su cui è apposta. La glossa è, dunque, inscindibilmente legata all'opera o passo che illustra, senza la quale non potrebbe nemmeno esistere. E gli scritti di critica d'arte di Mario sono inscindibili dalla visione delle opere di cui tratta, non possono mai esser letti come testi autonomi.

Fra gli scritti di Mario possiamo rintracciare, velate tra le pagine di un romanzo, anche delle dichiarazioni di poetica:   "l'esegeta tende a scoprire nelle espressioni, nelle tecniche del verso, e, in genere, nei frammenti che raccolgono spazi distinti, come monadi, quell'essere che si scompone per ragioni di riserbo" (La Croda Rossa, Gira Idi ed., 2015, pag.92).

Ecco che dalle sue parole ci traspare l'idea di un'esperienza umana solitamente scomposta in un fluire di esperienze che solo un'idea etica di "uomo" può ricomporre in senso unitario. Da qui il valore sociale del poeta, dell'uomo di cultura, che accompagna i suoi simili a chiosare le esperienze di vita per ricostruire il senso unitario, le motivazioni, del nostro agire nel mondo per poter esser capaci di scegliere consapevolmente e di agire. Perché il poeta è "un umano partecipe del sociale; d'altro canto, è impensabile un soggetto al di fuori della società" (op.cit. pag.93). E qual'era la società nella quale Mario avrebbe voluto vivere, e che quindi operava a costruire? Senz'altro improntata al pacifico dialogo fra umani, alla riduzione di sofferenze e disuguaglianze, ma secondo quale modello? Le ragioni di riserbo di cui sopra lo hanno portato a non esser mai troppo plateale, ma potremmo rintracciarle metaforicamente in un richiamo che più volte mi ha fatto ad una esperienza, ancora una volta di carattere giuridico-amministrativo, nonché legato alla sua terra natia. Tutti i comuni del Cadore sono tuttora riuniti nella Magnifica Comunità, istituzione che affonda le sue radici nel Medioevo, erede della storia unitaria della regione, delle sue esperienze di autogoverno e dei valori tradizionali espressi dalla popolazione. La Magnifica Comunità di Cadore, dal XIV secolo, fu la principale istituzione pubblica del territorio. Si reggeva sull'osservanza degli Statuti cadorini e in essa erano rappresentati i dieci centenari (suddivisione territoriale amministrativa), composti dall'unione di Regole (comunità di villaggio). Ancora oggi molte parti di territorio, soprattutto boschivo, sono di proprietà regoliera, cioè appartenenti agli eredi degli antichi abitatori costituiti in "regole", enti giuridici di diritto privato con propri Statuti derivanti dagli antichi Laudi. Tali proprietà collettive, acquisite per allodio, sono indivisibili, inalienabili ed inusucapibili e sono destinate soprattutto ad attività agro-silvo-pastorali. E l'allodialità (piena proprietà del bene) è il fondamento che distingue e differenzia i beni regolieri dai beni pubblici di uso civico. Nella Regola il proprietario non è il singolo individuo, bensì la comunità, e non solo quella attualmente esistente, ma l'insieme di generazioni passate e future che, tutte assieme alla comunità attuale, hanno a che fare con il bene della Regola. Essendo il proprietario un insieme di generazioni di aventi diritto, è impensabile che la cosa possa essere distrutta, come potrebbe avvenire per un bene privato. Anzi, la cosa deve essere protetta, curata e resa atta al suo scopo, cioè deve essere "frugifera", ossia produrre dei frutti. La cosa non è un piano liscio su cui il proprietario proietta i suoi desideri, ma ha delle esigenze che si impongono al proprietario stesso. Pertanto la cosa, appartenendo a una catena di generazioni, non è destinata allo scambio, non può essere alienata, né divisa; deve continuare a supportare tutti i proprietari. Ne deriva un sistema di rapporti in cui il bene comune è sommatoria di esigenze individuali ed al contempo preminente sulle stesse. E questo perché la terra sulla quale viviamo non è nostra bensì del Creatore che ce l'ha offerta in custodia. Mario, poeta glossatore, con questo riferimento, forse, voleva indicarmi anche una strada di impegno sociale.

Grazie, Mario, di averci accompagnato, in modo discreto, con un sorriso o un colpo di ciglio, nella nostra quotidiana ricerca di saper essere.

Roberto Agnoletti
Pistoia, 14-10-2017

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